In gita a New York, decido di provare l’arcinoto Le Cirque di Sirio Maccioni. Vanity Fair di maggio gli dedica ben otto pagine, in occasione dell’uscita di un suo tomo autobiografico. Dopo l’immancabile elenco di clienti famosi e potenti, il patron dichiara che, mentre gli europei vanno al ristorante perché non hanno voglia di cucinare, per gli americani il ristorante è “entertainment”. Prenoto tre settimane prima e mi vengono offerte due possibilità: alle 19,20 e alle 21,45. Questa precisione d’orario mi preoccupa: sembrano appuntamenti dal dentista, che prevede un paziente ogni 20 minuti. Quale sarà la durata programmata per il mio pasto?
Affamata (avendo scelto la seconda possibilità) e preoccupata che un minimo ritardo mi facesse saltare il turno, mi presento un po’ in anticipo. Dopo aver salito scale decorate con magnum di Krug e cumuli di frutta, notato un cartello “EAT” con freccia che indica la porta in cima alla scala (come quelli dei locali per camionisti), esser passata sotto drappi in stile tenda araba, aver calpestato moquette tipo Ibis hotel, osservato soffitti e decori in gotico-liberty, guardato un quadro immenso che ricorda il Guttuso della Vuccirìa ma in realtà ritrae vip assisi chez Le Cirque, con gli occhi tramortiti e non ancora sazi dei dettagli di un simile caravanserraglio vengo fatta accomodare su un divano à la Sottsass. Ma subito scatta l’ora convenuta, e con precisione svizzera vengo accompagnata in una grande sala affollata e luminosa, che ricalca lo stile rinascimentale di palazzo Pitti con aggiunta di scimmie in legno, di un caminetto country dove ardono flebili lampadine, di pannelli postmoderni in vetro.
Non parliamo poi dei clienti, uno spettacolo pure quelli, tutti all’insegna di un cliché perfettamente riconoscibile. Ci sono un paio di Ivana Trump, delle Heidy Fleiss, una coppia Miami Vice, c’è il tipo con la faccia da magnate che lascerà all’umanità straordinarie collezioni di dipinti, e la consorte tale e quale Coco Chanel da vecchia… insomma, si rischia di sentirsi sazi ancor prima d’aver mangiato. I camerieri sono quasi tutti d’origine italiana e hanno quella cordialità e professionalità tipica delle trattorie romane di una volta. Del cibo non si può dir male, ma il contesto è talmente sbalorditivo che quasi non lo noti: alcuni piatti come l’insalata d’aragosta e uno squisito trancio di branzino, enorme ma tenero, delicato e non grasso, sono addirittura eccellenti. Le cose sgradevoli al nostro palato italiano sono la sovrabbondanza di certi “letti” su cui vengono adagiate le pietanze, e la mania di servire i piatti freddi a temperatura glaciale, abitudini in tutto e per tutto americane. A fine pasto, senza averlo chiesto (sarà scaduto il tempo?), ci viene consegnato il conto. Con un Pinot grigio californiano di buon livello, è sui 150 euro a testa.