Cerchi su Internet “Casina Valadier” (nell’elenco telefonico di Roma non esiste), e, in ordine sparso, si srotolano i millecinquecento invitati della festa d’inaugurazione del ristorante (finita in un memorabile Cafonal del sito Dagospia) inframmezzati da una corposa serie di articoli che denunciano o difendono le superfetazioni del restauro appena ultimato: la nuova recinzione di 450 metri che ingloba una porzione di parco del Pincio, e le quattro verande “amovibili” (per modo di dire) spuntate sul tetto dello storico edificio.
Chiunque sia passato dal Pincio una sola volta nella sua vita, anche l’individuo più insensibile e indurito, non può non aver pensato: “Questo è uno dei luoghi più belli del mondo”. E la Casina, progettata dal Valadier in stile neoclassico all’inizio dell’Ottocento, è un concentrato di eleganza architettonica e bellezza paesaggistica.
Fallita una decina d’anni fa la società che aveva in gestione il ristorante, la Casina è rimasta chiusa in condizioni di crescente degrado, finché una nuova società s’è assunta l’onere dei lavori di ristrutturazione (costati, pare, otto milioni di euro). Il restauro, eseguito sotto la vigilanza di quattro soprintendenze, ha riportato la villa allo splendore originale. Con l’unica eccezione del tetto. Nel 1920 era stato smantellato, e al suo posto erano state create delle terrazze, poi parzialmente coperte da verande. Invece di seguire i precetti di Cesare Brandi, secondo cui gli edifici di valore storico vanno restaurati sulla base del progetto originario togliendo le aggiunte successive, oggi si è preferito ampliare le verande e così aumentare gli spazi del ristorante. In pratica la funzione commerciale ha avuto la meglio su quella artistica. Tra l’altro, in barba a ogni criterio di buon gusto, le verande sono delimitate da un muretto con sopra disegnate delle grottesche colonnine, come nelle scenografie di cartapesta.
La denuncia che ha portato a un ridimensionamento dell’ingombro delle nuove verande e il successivo dibattito con fior di studiosi intervenuti a pronunciarsi, si sono svolti sulle pagine romane del Corriere della Sera, mentre la redazione di Repubblica taceva. Per forza: la società di gestione, presieduta da Vittorio Ripa di Meana, ha tra i soci Carlo Caracciolo e Carlo De Benedetti, oltre a molti altri celebri nomi del terzismo e della “gauche caviar”.
Torniamo dunque alla festa d’inaugurazione: un inguacchio d’invitati, uno “storico evento nella capitale in un’atmosfera fiabesca” – come si legge in più d’un comunicato stampa. Se ci pensate, la parola evento è una delle più sgradevoli di questi ultimi anni: tutto è un evento, dall’inaugurazione di un negozio di lingerie all’Aida fra le Piramidi – per cui, di fatto, nulla lo è più.
Con queste premesse, sono andata alla Casina a dir poco prevenuta, in compagnia di un riluttante cavaliere, che ben più volentieri m’avrebbe condotto alla Campana, verace ristorante la cui cucina non mira a stupire e anzi rassicura.
Nel luogo dell’appuntamento, fuori dalla cancellata, stazionavano gruppuscoli di portaborse e autisti, come da consolidata tradizione romana.
Il ristorante è al primo piano della villa, cui si accede dal sontuoso pronao semicircolare, unico ornamento di una costruzione che brilla per pulizia delle forme. Nel salire lo scalone, qualsiasi signora debitamente abbigliata si sentirà come la protagonista di un musical anni Trenta. I tavoli sono disposti sulla terrazza con la città ai piedi, il Cupolone che svetta, il Gianicolo e poi l’orizzonte. Lontano dal traffico, fra i lecci del parco, anche l’ultimo degli incontentabili finisce per sentirsi un privilegiato. Con un simile scenario ci si sarebbe disposti ad accontentarsi di poco altro, persino di una cucina scialba, e invece ecco scattare la sorpresa: ogni singolo piatto assaggiato quella sera era interessante e molto ben eseguito. La cucina è affidata allo chef Antonio Sciullo, che prima era al Relais le Jardin dell’Hotel Byron di Roma. La parola chef spesso rimanda a cibo in mousse per sdentati, a pietanze che necessitano estenuanti descrizioni. Ma non alla Casina Valadier, dove il menu prevede piatti più che riconoscibili della tradizione italiana: culatello con mostarda di fichi, rigatoni all’amatriciana, cannelloni con baccalà cicorietta (troppo secca) e ceci, tagliata di filetto con porcini e pecorino, entrecote al dragoncello.
Il personale è premuroso, ma spesso il servizio s’inceppa. La carta dei vini arriva solo su richiesta, dopo aver passato le ordinazioni; e le pietanze sono servite appena tiepide – probabilmente per via di qualche esitazione di troppo nel trasporto dal piano sottostante, dove si trovano le cucine.
Per non lasciare nulla d’intentato, abbiamo provato anche il pranzo. Servito, purtroppo, all’aperto, sotto gli ombrelloni. Il calore è micidiale e vieta l’assunzione di vino. Ogni poco, quando il sole si sposta, devono intervenire un paio di camerieri per spostare i pesantissimi tavoli di ferro. E il menu è a buffet, con la coda di gente col piattino davanti alle pietanze più gustose, e l’inevitabile andirivieni di quando dimentichi il pane o urge una rabboccatina al piatto che ipocritamente non avevi riempito a dovere. Le cose più gustose erano la parmigiana di melanzane, il pesce marinato e i dolci. Per via di scrupoli filologici, che sarebbe stato meglio dirottare sulle famigerate verande, è stato tolto l’asfalto e ripristinato un fondo di ghiaino polveroso che insudicia i piedi delle signore in sandali. Quest’autunno, ultimati i lavori al piano terra, sarà tuttavia possibile pranzare all’interno e con servizio ai tavoli.
Il prezzo fisso del pranzo a buffet è di 26 euro (senza bevande). La cena stupisce persino per il conto: con una media di 60 euro a testa, la Casina Valadier risulta il ristorante di lusso meno caro provato nell’ultimo anno.
Casina Valadier, telefono 06 69922090 – Roma