Nessun comico televisivo è spassoso come il linguaggio di certi comunicati stampa. Provate a leggere le righe che seguono, e che riguardano l’apertura di un nuovo ristorante nel centro di Roma (le ho trovate riportate su tre quotidiani, identiche e senza nemmeno le virgolette d’ordinanza, come fossero opera del volenteroso giornalista che firma l’articolo anziché dello sforzo congiunto delle menti di una serie di pr): “Il ristorante rHome nasce dal sapiente investimento degli imprenditori Danilo Primerano e Luca Pavoni in collaborazione con Poltrona Frau e Pirelli P Zero, e dal desiderio di creare un ristorante nuovo, moderno, non appariscente da sembrare che sia sempre stato li’, ‘un nuovo già classico’. Il nome è un semplice trait d’union tra Roma (Caput Mundi) e home (casa come gran parte del mondo la chiama): rHome, studiato per esprimere l’interpretazione classica che rispetta le tradizioni romane in chiave moderna. E’ racchiusa in questo binomio di parole la chiave di lettura di un ristorante-casa dove il comfort è ai massimi livelli e il design è così semplice e insieme spettacolare a tal punto da suscitare una informale, emozionante, magica atmosfera…”. Già il dare del “sapiente investimento” a un’attività appena inaugurata è un azzardo, una sfida al destino, e ci auguriamo che il ristorante non vada gambe all’aria come quello che occupava in precedenza il medesimo spazio (era il Reef del celebre chef Antonello Colonna). Ma a lasciare soprattutto il segno è quel trionfalistico ingorgo logico-grammatical-sintattico, che fa temere il peggio anche dal punto di vista culinario.
Nel costruire il nostro sano pregiudizio su un locale tanto strombazzato, abbiamo anche considerato che in questi primi sei mesi di attività il rHome ha ospitato feste ed “eventi” abbondantemente riportati dalle cronache mondane dei giornali, con relativa elencazione di ospiti più o meno conosciuti, definiti “crème dei presenzialisti da buffet capitolini”. A queste lusinghiere scorie giornalistiche dobbiamo solo aggiungere che ogni sera, dopo mezzanotte, nel ristorante si materializza un “dj resident”, e che la chiusura dei battenti avviene non prima delle due del mattino. Coltivando un certo gusto per il trash, sono quindi andata a verificare sul campo, quasi augurandomi il peggio, come succede quando si sfoglia una rivista di pettegolezzi: lo si fa per ridacchiare alle spalle altrui e magari disgustarsi, già sapendo che se ci si imbattesse in un articolo interessante si deporrebbe istantaneamente, inorriditi, il rotocalco.
Due settimane fa, all’ora di pranzo, sono dunque andata al rHome. Seduta su comodo divano Frau in pelle bianca già vagamente sporchina, le braccia poggiate su un tavolo di vetro scuro, ho chiesto al cameriere se non fosse prevista la tovaglia. “Quella la mettiamo solo la sera, perché la gente sta a tavola più a lungo”, mi ha risposto (sorvolando sul fatto che invece i prezzi restano sempre gli stessi, tovaglia o non tovaglia). Il menu, curiosamente, elenca piatti che potresti trovare dalla Sora Margherita a piazza Cinque Scole, nel ghetto di Roma: tonnarelli cacio e pepe, tortiglioni alla carbonara, pennette alla puttanesca, pasta e fagioli, polpette al sugo con puré di patate, pollo con peperoni, saltimbocca alla romana, e via di questo passo pur con timide incursioni nelle mode culinarie – tipo l’inevitabile tributo all’ormai onnipresente tonno. Avendo io come sempre ordinato antipasto, primo e secondo, la cameriera, molto gentile, mi ha avvisato che le porzioni sarebbero state molto abbondanti. Accanto a me, solo due tavoli occupati: uno da tre bambini e due domestici orientali, tutti e cinque col loro bravo cellulare sul tavolo; e un altro da quattro uomini politici che hanno instancabilmente chiacchierato a voce alta (forse per sovrastare la musica “easy listening”) di posti e cariche e presidenze, senza mai accennare una sola volta a un’idea o un principio o un progetto. Ma si sa, solo gli ingenui credono che la politica sia qualcosa di diverso dalla mediazione e conseguente lottizzazione. Con un occhio nei piatti altrui, effettivamente serviti in porzioni da orco, ho assaggiato delle mezze maniche alla Norma, eseguite come ci si aspetterebbe facciano in una putìa di Catania: rosse, sugose, al limite dell’unto, saporite. In un certo senso genuine e in disarmante contrasto con l’atmosfera di neutra eleganza degli arredi (persino le pareti sono foderate di pelle da divano Frau). Per secondo, un galletto alla diavola con patate al forno: sarebbe stato discreto, con giunture e carni non spappolate come certi orrendi prodotti d’allevamento, se solo fosse stato più cotto all’interno (certe parti erano al sangue) e meno all’esterno (la pelle era al limite del carbonizzato, con sapore di olio bruciato). Buone le patate: secche fuori e morbide dentro, per nulla unte.
In ultimo va segnalato che il ristorante si trova a due passi dall’Ara Pacis, e tra tutti i locali della zona, se non altro perché poco frequentato all’ora di pranzo, sembra il più adatto a una lenta ripresa (tipo camera di decompressione) dallo choc causato dalla visione dello scatolone marmoreo firmato da Richard Meier.