Arrivo al Moro con lo stomaco sottosopra. Poche centinaia di metri prima, in piazza Venezia, proprio sotto il famoso balcone degli appelli duceschi, ho assistito dal taxi a una scena piuttosto macabra. Il sole scintillava, il cielo era terso dopo un temporale, e nel bel mezzo delle aiuole a prato inglese, curatissime come fossimo a Berna e con disegni geometrici tratteggiati a colpi di ciclamini, un gabbianaccio grosso come un avvoltoio spolpava un uccellino, e col becco gli pescava nelle interiora, strappandole. Beata Vergine! E io che da bambina mi ero così commossa sulle pagine de Il gabbiano Jonathan Livingston! Non si finisce mai di rimettere le cose al loro posto: di questi tempi ai bambini pare meglio far vedere Uccelli di Hitchcock, più formativo e verosimile. Va detto, però, che nell’entrare al Moro scordo tutto e mi faccio prendere dalla solita buona vecchia fame: al centro della prima sala, un tavolo esibisce i piatti del giorno e le primizie. Porcini o tartufi a seconda della stagione, fave e piselli, cotolettine di abbacchio, carrello dei bolliti. Gli ambienti sono davvero angusti (eccetto la sala sul retro, adiacente alla cucina, dove nessuno vuole andare e ci finiscono i giapponesi e qualche turista sprovveduto): curiosamente un ambiente così ristretto e stipato di tavoli, sedie, clienti e quadri, è gestito da una coppia di spilungoni (padre e figlio) dall’aspetto piuttosto british, benché non slavati. Te li immagini soci dell’Aniene, o di qualche altro circolo, anche perché l’atteggiamento è compassato, privo della guitteria strisciante di molti ristoratori romani. La sala più richiesta è la prima, quella col cibo in mezzo, da cui è agevole controllare entrate e uscite, dire “Guarda com’è invecchiata quella” o strappare a un grand commis di passaggio un appuntamento per il proprio personale caso. Al Moro c’è anche una saletta per incontri riservati, da cui qualche mese fa, poco dopo le dimissioni forzate, vidi uscire l’ex Ministro dell’Interno Scajola, lo sguardo dardeggiante i segnali torvi di chi medita vendetta, seguito da un manipolo di collaboratori che sembravano scodinzolare di paura, come fanno i cani di padroni nevrastenici e umorali quando non riescono a prevederne le azioni. Mi è anche capitato di sedere accanto a Marina Cicogna e Jeanne Moreau, presenze che evocano storie e immagini ben più gradevoli. Perché, questo va detto, oltre agli immancabili parlamentari, boiardi, e politicanti vari, al Moro ci trovi il fior fiore dei vecchi teatranti e cinematografari, forse un po’ avvizziti, ma con una classe che ai giorni nostri te la sogni.
Una caratteristica di questa trattoria, oltre al curioso soffitto a nido d’ape, sono i quadri: in genere quelli dei ristoranti sono orrendi, e disturbano la degustazione. Oppure le pareti sono tappezzate di foto di vip passé che hanno visitato il locale in tempi per loro migliori. Ho sempre trovato quest’esibizione improntata a un gusto un po’ necrofilo: da Fortunato al Pantheon c’è un Reagan che lui ormai nemmeno sa d’essere stato. E al Santa Lucia di Milano metà delle foto non sai di chi cavolo siano e ti danno l’idea della crudeltà del destino, t’immalinconisci pensando alla fugacità della gloria. Invece al Moro la scelta dei quadri sembra esprimere passione e gusto, non la necessità di addobbare le pareti. C’è persino, benché relegato nella sala interna, un nudo maschile (con tette e pancia), accanto a un manifesto con tre bambini avvolti nel telo azzurro dell’Unicef, cosa che scatena un fugace senso di colpa nell’atto di rimpinzarsi.
Il colpo d’occhio dà l’idea di una tavolata unica, come al refettorio di Marcellino pane e vino. Per far uscire chi sta con le spalle al muro (letteralmente: se entrasse qualcuno per un regolamento di conti non si saprebbe dove buttarsi) devono estrarre il tavolo. Quando ci si siede, tanto varrebbe fare direttamente le presentazioni coi vicini: in ogni caso è impossibile perdersi qualcosa delle rispettive chiacchiere, ci si scambia sorrisi e battute, e alla fine si rimane col dubbio di chi diavolo fosse il commensale alla tua destra, “un industriale veneto”, “mannò, è chiaro, un parlamentare della lega”, e via col gioco delle illazioni.
Vip o non vip, in questi luoghi gli esseri umani che più incuriosiscono sono i camerieri. Pagheresti chissà cosa per comprare anche un po’ dei loro pensieri e delle loro considerazioni sull’esibizione del potere, quello vero e quello millantato, sul cafonume vestito a festa, sui tic e i vezzi dei più prestigiosi frequentatori.
Il menu viene compilato ogni giorno con la macchina da scrivere (i ristoratori sono gli unici esercenti che ancora se ne servano: sempre meglio degli ordini fatti “touch screen”, con la mappa dei tavoli, come al Bagutta di Milano). Le voci della lista sono quelle classiche: bolliti, primizie, piatti del giorno e piatti espressi (distinzione ormai scomparsa, che però fa la differenza: pensate a quante tragiche riscaldature, come quelle ingommanti a microonde). Ottimo il classico frittino d’antipasto, composto di fiore di zucca ripieno di mozzarella e acciuga, ricotta e un supplì cui rinunciare volentieri in cambio di un secondo fiore di zucca.
La cucina è tradizionale e di buona qualità, a volte talmente tradizionale da risultare un po’ greve per i nostri stomaci debilitati dall’ipernutrizione. Coda alla vaccinara, trippa alla romana e abbacchio con patate non mancano mai. Il pesce è cucinato con equilibrio, senza indulgere al crudo . Si può tranquillamente bere il vino della casa, senza rischiare tremende acidità postprandiali. Quando ti disperi perché hai finito la tua massima dose autoconsentita, e però nel piatto c’è ancora un boccone cui non intendi rinunciare, puoi ricorrere al decimo di vino (in pratica una provetta), roba da svizzeri, che però dà sollievo.
Il pane costa 2,50 euro pro capite e, visto che si paga, conviene farlo fuori, anche perché è una delle cose migliori del locale. Il conto (circa 40 euro a persona) non è sbalorditivo.