Milano, una città fondata sulle colazioni di lavoro: al Girarrosto, da Santini, ai Boeucc, non diversamente che al Doner Turkish Kebab. Dalla massaggiatrice al promotore finanziario, tutti hanno qualche traffico in atto e ne definiscono o patteggiano i risvolti con le gambe sotto al tavolo. Si pensa distrattamente a quel che c’è nel piatto mentre si discute d’affari a crepapelle (certo, non possiamo escludere che tra le pieghe di tante conversazioni pratiche si celino anche risvolti amorosi – e sennò quando mai verrebbero coltivate le passioni extraconiugali?).
Oggi, nel giorno di santa Barbara, patrona dei fucili e della polvere da sparo, mi capita di pranzare al Baretto di Milano, locale con orari poco milanesi (qualcosa di cui cibarsi te lo servono a qualsiasi ora, foss’anche una tartina), da poco trasferito nell’hotel Baglioni di via Senato. Nella capitale del design raggelato, dei negozi che mimano l’atmosfera di un igloo o perlomeno quella essenziale e sabbiosa di uno spicchio di deserto, eccoci invece in un ambiente caldo e scuro, la moquette tàrtan, alle pareti stampe raffiguranti la buona società del tempo che fu unitamente a un campionario di scimmie, boiserie, sedie che sembrano in similpelle forse per via di quel colore da cibo in scatola per cani, e invece sono di pelle vera. Un’atmosfera tra il pub di lusso e il club inglese, e tuttavia l’ambiente è pulito, in regola con le autoctone norme igieniche.
Se a Roma, entrando in un ristorante noto ti sembra di precipitare nelle pagine di Chi o in Dagospia, conosci tutte le facce, ma poi indaghi e vai a veder chi sono questi famosi e si tratta in fin dei conti di gente che spesso arranca né più né meno di te, a Milano, e al Baretto in particolare, ti senti accerchiato da individui che non sai chi sono, eppure faresti meglio a saperlo. Presidenti, consiglieri d’amministrazione, gestori, azionisti di qualche cosa, che per quanto la crisi della Borsa abbia tolto un po’ di smalto alle loro res gestae, hanno l’aria sinistra di chi potrebbe risolvere o far precipitare la tua situazione con un paio d’ordini sbrigativi dettati alla segretaria. Poca gioventù, dilagano la seconda e la terza età. Le signore poi sono assai interessanti: quasi nulla di fresco e appetitoso, al Baretto ci trovi certe tavolate tra il Soroptimist, e il “circolo rifatte” con residenza a Lugano. Di quei drappelli cui – se non avesse presumibilmente fatto fuori l’ex marito – mancherebbe solo Patrizia Gucci: overdressing, capelli a impalcatura biondo cipria, ognuna col suo piccolo segreto chirurgico o dermatologico. Oggi, invece, di fronte a me, siede la direttrice d’un settimanale (nonché figlia di) con la compagna del più pagato manager d’Italia, mentre dal tavolo alla mia destra, imbandito come fosse una scrivania (cellulari, laptop, penne, agende, fascicoli) una signora comunica all’amica: “Sui titoli ho perso il cento per cento”, e giù a parlare di castelletti e dei bond della Cirio smerciati dalle banche in fretta e furia; “C’era tutto un articolo anche sul Sole 24 ore”, tenta di confortarla una commensale. Si scivola poi in una discussione animata su quale sia la carta di credito più conveniente. Questa conversazione mi dà l’idea – una volta per tutte – del livello di faticosa emancipazione raggiunto dalle donne dell’alta borghesia. Una volta, le signore, i soldi pensavano a spenderli – cash o plastic money che fosse – senza tanto stare a pensarci su, oggi invece tocca crucciarsi (e forse anche divertirsi) con la custodia e la gestione.
Osservo una donna con i capelli scuri intersecati da una striscia bianca, come Aldo Moro, come la coda dei procioni, quasi sempre presente. Chi sarà mai? Dopo svariate illazioni finisco per darmi pace: qualcuno sicuramente sarà, tutti sono, e mi rassegno a non venirne a capo.
Che dire poi dei camerieri? In total look black, pantaloni, camicia e persino il grembiule, eccola qui l’Italia in camicia nera. Solo il maître, che poi forse è il gestore, indossa un doppiopetto con tradizionale camicia bianca. Uno del personale, all’entrata ha addirittura l’auricolare, è teleguidato insomma. Ambra Angiolini? No, ricorda piuttosto le guardie del corpo che stazionano negli ingressi spaziosi dei ristoranti moscoviti, anche loro nerastri e silenziosi, l’aria torva e allertata di chi ha qualcosa da difendere, foss’anche semplicemente la privacy di qualche boss. Tra i camerieri, interessante la bionda longilinea dai capelli corti, androgina quanto basta per risultare ben più appetibile di molte avventrici all’insegna dell’iperfemminino.
E il cibo, infine? Che cosa, e soprattutto, come si mangia? Eccovi qualche consiglio: vino o champagne al bicchiere per chi si sentisse morigerato, perlomeno in termine di utenza alcolica, anche se spillati quasi al prezzo di una bottiglia intera. Carne e pesce di buona qualità e di esecuzione oltremodo dignitosa, con poche – evitabili – cadute, per esempio i maccheroni con le melanzane, troppo sugosi, un po’ da mensa aziendale, e dei grissini al minimo sindacale (ma in un posto così, non potrebbero trovarsi uno straccio di fornitore di pane e grissini, invece di somministrare le bustine come in pizzeria?), la tarte tatin inflaccidita e gommosa, come quelle brioche surgelate e fatte rinvenire nei fornetti dei bar. Riguardo al conto il coperto è valutato in 5 euro, e il mio personale consiglio è di andarci piano con le coppe sciolte di champagne: il resto è senza sorprese, in linea con l’atmosfera di lussuoso understatement del locale (tanto per capirci, direi una media di 80 euro per avventore di appetito morigerato, cioè senza fronzoli – ostriche, tartufi, champagne). Bagni grandi come l’abitazione d’una famiglia media, e guardarobiera sobria – anzi, incorruttibile – senza l’aria di chi attende spasmodicamente una mancia proporzionale al conto pagato.
Baretto, via Senato 7, tel.: 02 781255