Camilla Baresani
Indirizzo: Torre Branca, Via Luigi Camoens, 20121 - Milano
Telefono: 02311817
Sito web: http://milano.cavalliclub.com/it/
Prezzi: €80

Sommario

Milano – Just Cavalli Cafè

- Il Sole 24 Ore - Domenica - Lombardia Ristoranti

“Le pernici sono animali interessantissimi che ricordano le donne arabe. Valgono soltanto quando sono giovanissime: compiuti i quattordici, quindici mesi, sono coriacee e tigliose”. Chissà se la pernice triturata nel risotto del Just Cavalli Café di Milano, sia stata “* congelata o surgelata all’origine” (qui cito il menu) prima del fatidico compleanno. Va da sé che Alberto Denti di Pirajno, autore della metafora succitata e di un manuale di cucina che è anche saggio di costume e diario di viaggio di un gentiluomo cosmopolita (Il gastronomo educato, Neri Pozza, I ed.,1950), scriveva in tempi in cui la politically correctness ancora non era stata inventata. In una nota che accompagna la seconda edizione del libro (nel ’65), Denti di Pirajno nota che in tempi di mercato comune e passaporti europei è grave che gli italiani restino campanilisti in campo gastronomico, e non solo rifiutino a pie’ pari di conoscere la cucina straniera, ma pure “sardi ci racconteranno di aver corso rischi mortali assaggiando l’abbacchio romano, buongustai di Catania arricciano il naso sentendo parlare della caponatina come la si prepara a Palermo”. Eh sì, sono proprio cambiati i tempi: nuovi tabù linguistici hanno sostituito quelli d’allora, e se l’autore del manuale ci potesse accompagnare in un giro per i ristoranti della penisola, finirebbe per ricredersi: nel volgere di un paio di decenni gli italiani sono divenuti esterofili, “contaminatori”, maniaci della novità e del pastiche.

Torniamo quindi alla pernice: “Risotto con ragout di pernice* mantecato al Castelmagno e ribes”. Laddove l’asterisco rimanda allo stato di conservazione del pennuto, il ribes rimanda a pietanze d’oltralpe, il Castelmagno a ricercatezze da Slow Food, la pernice alla cucina francese, il risotto al nord Italia, e il ragout – cioè il ragù – alla pasta all’uovo, l’insieme mischiato mortifica le papille senza riuscire a ricondurle a un nessun sapore riconoscibile, se non a un impasto cupo e dolciastro. Stessa cosa per i “Bocconcini di capriolo* con bacche di ginepro, cioccolato in nido di patate e corallo di cacao e arancia”. Capriolo, pernice, tournedos di vitello… tutto sembra improntato alla medesima greve confusione di sapori. Ordiniamo una caponatina di melanzane? Che ci fa una capasanta nel mezzo, tra pinoli, pepe nero e ravanelli all’agro? E poi è tremendamente unta, e il pensiero che per renderla così intrisa d’olio sia stato usato l'”extravergine di oliva prodotto nella tenuta di Roberto Cavalli nel Chianti” non basta a consolarci. I “Gamberoni* carabineros alla griglia serviti con riso selvatico, salsa di senape in grani e salsa olandese fredda” sono elastici e spugnosi come quelli delle insalate di mare vendute nelle salumerie. Oltre che mal eseguita, è insomma una “non cucina”, impersonale né più né meno come i “non lieu”, gli spazi anonimi e replicati ovunque nel mondo (aeroporti, catene alberghiere, autostrade), così definiti da Marc Augè: spazi volti ad annullare l’identità mentre la trasportano da un luogo all’altro. Togli le peraltro poco originali stampe animalier dei tessuti di Cavalli che coprono sedie e divani, e anche qui tutto il resto è non: i cespugli esterni ritagliati a stambecco, decespugliati insomma; i tavoli senza tovaglia; il volume della musica (scelta da due dj) tale da annullare la comunicazione tra commensali; l’assurda non illuminazione dell’ambiente (fatta della fiocaggine tremolante di lumini come quelli che decorano gli altari nei bassi napoletani, di lampadine rosso-verdi da decorazione natalizia, di lampadari spenti a goccia da salotto della zia Peppina). Si fatica a distinguere quello che c’è nel piatto, e per leggere il menu verrebbe da chiedere una pila. La carta dei vini inizia con gli champagne, e l’assortimento è discreto. Non altrettanto si può dire per i vini rossi, e la situazione peggiora ulteriormente quando ci si volge ai bianchi. E i bicchieri? Quelli da acqua sono pesanti e grandi come vasi da fiori, in stile bugnato fiorentino. I calici sono, invece, quelli di vetraccio scadente delle osterie. Viene il sospetto che Cavalli abbia tralasciato di disegnare le tovaglie per dedicarsi alle impugnature delle posate, a tronco d’albero e assurdamente ponderose, che sbilanciano la mano.
Si dirà: ma è un locale molto frequentato, con una struttura architettonica di pregio, non le solite due sale sul marciapiede. Vero: siamo in un ambiente  tutto vetro e poco acciaio, alla base della famosa Torre Littoria (ora Branca) progettata da Giò Ponti per la Triennale del ’33. Il bancone è disegnato ad ameba dal famoso architetto Ron Arad, la struttura è raddoppiata dalla parete di fondo a specchio, e l’insieme ti fa sentire in una surreale gabbia per grilli, non priva di fascino.
La clientela è in massima parte rappresentante di quel genere impupazzato, o overdressed che dir si voglia, in cui quasi tutti prima o poi abbiamo incespicato. Un genere comunque sempre divertente da osservare, magari con lo stesso spirito di attrazione e ripulsa con cui si guardano le trasmissioni di Maria De Filippi e si sfogliano le pagine di Eva 3000.
Però, senza tornare ad accanirsi sul cibo, il personale di sala è sprovveduto o, peggio, improvvisato. Una cameriera pencolante sui tacchi è addetta al trasporto dei piatti dalla cucina alle mani del maitre: mentre confabulano per decidere a che tavolo vadano portati, lei ci tiene dentro, saldamente conficcate, due falangi di pollice. “E’ talmente buio, che le impronte non si vedono” cerca di consolarmi il mio commensale.
Il menu ha sul fronte uno sghiribizzo a cuore, attraversato dall’autografo di Roberto Cavalli e dalla scritta “I love you!”. Bugiardo. Quegli 80 euro a testa, e in cambio di cosa, poi?, non fanno presupporre alcuno slancio affettivo.