“In generale ho notato che il degrado è molto più rapido del progresso. E perdipiù, se il progresso ha dei limiti, il degrado è illimitato.” La notazione è di Sergej Dovlatov, eccellente scrittore russo novecentesco, pubblicato in Italia da Sellerio. Vogliamo applicarla al sushi, che ormai pare diventato il McDonald’s del 2000? Quasi ovunque nel mondo occidentale, nei ristoranti e nei locali senza pretese europei e degli Stati Uniti, nei banchi dei supermercati di Milano e in quelli di Rio de Janeiro, a Mosca e a Caracas, il sushi viene offerto a prezzi anche molto bassi e comunque commisurati a quello che si offre: micro-fettine di pesce di bassa qualità, allevato malamente, su una base di poltiglia di riso cotto senza criterio. Attrae clienti in fuga dalla minaccia delle calorie e dei grassi saturi, persone che si sentono libere di rimpinzarsi senza le conseguenze funeste degli hamburger sfrigolanti, delle patate fritte, delle pizze decorate come alberi di Natale; piace ai bambini divertiti dagli esotismi e dall’aspetto da giocattolo, da cibo preparato nella casa delle bambole, quasi fossero tanti pezzettini di Lego. Trattandosi di pesce crudo, la cui preparazione richiede non solo un’artigianalità esperta ma anche la capacità di scegliere le materie prime, nonché l’attrezzatura necessaria a uccidere eventuali parassiti, spesso ci si chiede se tutte le norme di igiene e freschezza siano rispettate. In generale l’aspetto di gran parte del sushi smerciato è di una tristezza infinita. Inodore, col rigor mortis delle cose servite a temperatura troppo bassa, con tracce evidenti di ossidazione. Inoltre, spesso è preparato in una sorta di catena di montaggio che inizia ore prima, con lavoranti inesperti e quasi mai giapponesi. Un po’ come capita andando a mangiare all’estero certe pizze preparate in locali turchi, dove nulla è comme il faut – dalla farina, alla lievitazione, alla mozzarella. Ma almeno la pizza cuoce tra i 250 (forno elettrico) e i 350 gradi (forno a legna). Nel mare contaminato del sushi, c’è dunque bisogno di condividere i migliori indirizzi: per esempio quello di un locale economico, verace, esente da mode fusion. Poporoya, a Milano, è un negozio di alimentari giapponese con annesso sushi-ya. Angusto, disordinato, allegro, è il regno di Shiro, nome d’arte di Minoru Hirazawa, che per primo introdusse in Italia i piatti di pesce crudo a prezzi da “bar”. Quando iniziò, nell’84, Poporoya era l’unico locale giapponese che mi potessi permettere. A Milano c’erano il costosissimo Suntory e Endo: veri e propri ristoranti. Solo da Shiro ci si sedeva al bancone in un’atmosfera assolutamente informale e si veniva introdotti nel magico mondo del sushi, del sashimi, del chirashi. Sono passati tanti anni, e il locale è sempre lo stesso: amichevole, affollato, internazionale, scomodo. Ma continua a valerne la pena. Shiro, prepara in diretta i piatti (e se non arrivate nell’orario di punta li fa anche nella succulenta versione “speciale”), con tecnica da esperto e maniacale maestro pluridiplomato qual è, lui che già negli anni Ottanta importò dalla Francia, per primo, l’indispensabile (per il pesce crudo) abbattitore di temperatura. Branzino, orata, ricciola, aragosta, polipo, calamari, uova di salmone, uova di pesce volante, uova di merluzzo. Il tutto con 15/16 euro, incluso tè hojicha. Materie prime, riso incluso, eccellenti.