Fermo, fisso, frontale come un’icona bizantina, eppure è giapponese. Hirazawa Minoru, detto Shiro, sta da quasi trent’anni dietro il banco-vetrina di Poporoya. Lo vedi sempre a mezzo busto, intuisci la frenesia delle mani che tagliano, arrotolano, appallottolano e comprimono sotto la linea del banco del sushi, ma non lo vedi mai per intero né di sbieco, e soprattutto non lo vedi invecchiare: la sua faccia è come cristallizzata in un eterno sorriso da bambino divertito. Quando, nei primi anni ’80, ho cominciato a essere curiosa di cucina giapponese, a Milano c’erano solo due ristorantoni troppo costosi e Poporoya, piccolo alimentari (rafano, birra, sake, tofu e stranezze in busta) con banco sushi. All’epoca la parte negozio era un po’ più grande; poi, con gli anni, si è ristretta per lasciar spazio a una quindicina di posti tra bancone e microtavolini: il massimo umanamente possibile per un solo sushiman che prepara tutto al momento, senza fermar le mani un secondo. Si fa la coda, si sta compressi, e una volta che si conquista un posto a sedere si viene serviti subito e non c’è poi tempo per dilungarsi in chiacchiere, perché ci sono altri che aspettano. Dopo un po’ i frequentatori li conosci quasi tutti, perché sono in gran parte habitué.
Nel frattempo, mentre da Poporoya avvenivano questi impercettibili cambiamenti, fuori cambiava tutto. Scoppiava la sushi-mania: in mancanza di ristoratori e cuochi giapponesi, gli italiani e i cinesi si buttavano nel business del sushi; per inesperienza e abbondanza di richiesta venivano serviti a caro prezzo pesci allevati in economia e trattati in modo dilettantesco, con riso colloso e stracotto, il tutto trasformato in sushi ore prima di essere servito; persino i banchi frigo dei supermercati si riempivano di scatolini con il sushi e le casalinghe inquiete frequentavano corsi di cucina fusion o giapponese; a Milano sbarcava la celebrity Nobu, seguita dai suoi molti epigoni. Ma io continuo ad andare da Poporoya, e patire un po’ della sua (divertente) scomodità. Perché Shiro è stato uno dei precursori della cucina giapponese in Italia, dove è arrivato dopo essersi diplomato presso una prestigiosa scuola di cucina di Osaka, ed è anche stato il primo a importare dalla Francia l’indispensabile (per il pesce crudo) abbattitore di temperatura. Perché non è fusion né fashion, ed è un grande esperto di pesce e selezionatore di materie prime di qualità (dal riso al tè hojicha, passando per orate, ricciole, aragoste, polipi, calamari, uova di salmone, uova di pesce volante, uova di merluzzo…).