Immaginate un lussuoso rifugio per individui facoltosi che debbano difendersi da sommosse, rivolgimenti, armi non convenzionali; nel sottosuolo del centro di Milano, due piani sotto lo sferragliare dei tram. Arredato con lo stile dei ricchi di adesso, quelli senza storia e tuttavia senza neppure inclinazioni per il futuro, nell’ambientazione rassicurante di un lusso da negozio di Gucci: un luogo dove svegliandoti improvvisamente, spaesato, non sapresti se chiedere il menu o aspettare che il commesso ti porga le scarpe della tua misura. Al livello stradale una dolce ragazza d’origine slava aspetta i clienti per infilarli nell’ascensore. E un piano più sotto (lei intanto è scesa a piedi, facendoti sentire precocemente senile) te la ritrovi davanti alla porta che si apre: le cedi la giacca, mentre una ragazza più corpulenta ti prende in consegna, per farti accomodare in una nicchia-bar dove viene servito un sontuoso aperitivo. Frattanto il tempo scorre e dopo un po’ cominci a chiederti se non ti abbiano frainteso: hai prenotato per le nove e mezza, però un tavolo al ristorante, non un posto al bar! Infine, con una fame feroce (persino in un locale così capita che chi lo frequenta abbia fame: non è necessario, ma può succedere), vieni accompagnato al piano “meno 2”, ma questa volta rifiuti l’ascensore. Tra tempi morti e tempi tecnici, dopo un’attesa che rende ancor più ferino il desiderio di nutrirsi, iniziano infine (è passata un’ora) ad arrivare le portate. Stai per avventarti ma il cameriere ti costringe al supplizio della frenata: prima deve spiegare le composizioni. In un certo senso l’esegesi del piatto ha la stessa funzione della preghiera alla tavola dei credenti: è un ritardante, una bacchettata sulle dita all’ingordigia. Del resto qui la descrizione è necessaria: nulla è come sembra, le materie prime vengono ricreate nella composizione e spesso anche nel disegno. Per esempio, un tuorlo d’uovo marinato con funghi chiodini e sedano rapa assume l’aspetto di un normale uovo al burro, ma tradisce le aspettative del palato. La sostanza arancione non sa d’uovo e un po’ s’incolla ai denti, e l’albume è ricreato con una delicatissima spuma. Un bicchierino da bere in un sorso (“come tequila bum bum” recita il cameriere più esperto, uno con le sembianze da vicedirettore di filiale di Credito cooperativo), contiene un liquido di pesto al basilico e uva sultanina. Una specie di budino è “piccola crema di mais con foie gras in superficie”, e una zuppetta è “crema di riso con ricci di mare e salsa al caffé”: si procede così, ad assaggini, fino alle undici. Il mio commensale, un tipo in carne, comincia a chiedersi dove trovare un distributore di barrette di cioccolato per calmare una specie di fame nervosa che l’ha preso a forza di cucchiaiatine e sorsetti. Nel frattempo, tra una portata e l’altra, ci si gode lo spettacolo dei camerieri che attraversano lo spazio come scivolando lungo le traiettorie obbligate di un videogame, impettiti in una sorta di movenze militari e però silenziosissimi, senza sbatter di tacchi. Un’atmosfera da fondo marino o da acquario, dove manca solo di sentire il gluglu delle bollicine. E se non stai tubando col tuo commensale, ti rimane lo spazio per osservare l’andirivieni dal bagno, esaltato in modo impietoso (come in una parodia dell’Ariston di San Remo) dal salire per le scale, sempre accompagnati dalla cameriera che conduce tutti fin sulla porta delle toilette e, con discreto imbarazzo dei signori (un amico mi fa notare che in America non potrebbe succedere, per il rischio di venire accusati di molestie), li aspetta e li riporta al tavolo nell’eventualità che tornino a sedersi a quello sbagliato.
Intanto riprendono ad arrivare portate: “trancio di baccalà al vapore con spuma d’olio”, e “petto di piccione in cottura media con purè di giuggiole e semi di mais”, sono i piatti più appetitosi fra quelli assaggiati, qualcosa di finalmente non cremoso, per cui si utilizza – infine – anche la dentatura.
Mentre durante la settimana i clienti del ristorante hanno l’aria di stranieri sopraggiunti nella capitale morale per questioni legate agli affari, oppure sono i soliti milanesi arcinoti, di sabato sera la clientela ha il più confidenziale aspetto della ricca e compiaciuta borghesia con aziende e professioni locate qua e là nella provincia. Sabato scorso ho goduto della commedia di seduzione giocata da una coppia sulla sessantina. Lui, un sosia del caratterista che in Vacanze di Natale interpreta il prototipo del milanese, le mandava baci nell’aria a ogni brindisi, cioè ogni volta che prendeva in mano il bicchiere. E quando lei gli accendeva una sigaretta, si premurava di tenerle ferma la mano, racchiudendola, insinuante, tra le sue. Dopo averla a lungo intrattenuta sulle responsabilità del mestiere di imprenditore, sull’Italia che lavora e altre facezie, le elargisce una straordinaria interpretazione sul valore della poesia. “Secondo te c’è un’idea che possa creare emozioni? Secondo me è ‘M’illumino d’immenso’: due parole che insieme non hanno niente da spartire, ma hanno qualcosa di superiore, perché evocano uno stato d’animo”. Poi, soddisfatto della citazione con glossa, si alza di scatto e, dimentico della signora, va verso la scala. Lei rimane al tavolo, stupita. E lui: “No, non è che ti lasciavo qui… in omaggio alla casa!”.
Squisita la gelatina di miele con mousse di caprino e tartufo bianco d’Alba. Seguono altri assaggi di formaggi e dolci. Il tutto per circa 150 euro a testa.
Cracco Peck – via Victor Hugo, Milano.