Un crocicchio di strade poco frequentate, dalle parti di Ascoli Piceno e vicino a Offida, centro della produzione del Rosso piceno superiore, del Falerio e di un altro bianco che curiosamente si chiama Pecorino (dal nome del vitigno). Poche case, il ristorante, un’edicola, la pesa pubblica. E’ un paese questo? Pare di sì, anche se non c’è la piazza né alcuna altra forma architettonica che abbia funzione aggregativa. Tuttavia non mi formalizzo, sono qui per mangiare e non per cercare casa. Siamo comunque nel mezzo di quel paesaggio dolce marchigiano, per nulla turistico e per nulla inferiore a certe vedute collinari toscane, con il mare pochi chilometri più giù, tanto per dare profondità all’orizzonte e al nostro sguardo che lì per lì è ancora acuto, mentre più tardi – dopo degustazioni e libagioni – sarà annebiato da un eccesso di sazietà.
La sala del ristorante è di quel moderno primi anni ’90, tutto controsoffittature e accecanti faretti alogeni, quadri figurativi un po’ decostruiti, l’immancabile nudo femminile e vedute dai colori acrilici. Una cinquantina di posti, occupati – all’ora di pranzo di un giorno feriale – da un manipolo di clienti di chiara origine locale, perlopiù maschi e perlopiù habitué. Interrogato, un commensale risponde che mangia lì pranzo e cena: domani no, ha un matrimonio.
In un simile ambiente ti rendi conto di quanto siano fuoriluogo indagini sulla funzionalità epatica, sulle transaminasi, o il semplice calcolo dell’indice di massa corporea: non uno dei clienti potrebbe definirsi in “normopeso”. Del resto, da quelle parti, a chi si propone di pasteggiare con una semplice insalata, la saggezza popolare ribatte: “Insalata? Bocca unta e pancia tribolata”. I presenti sembrano preda di una sorta di frenesia alimentare, come i pesci quando vengono pasturati, e ogni volta che dal tuo tavolo ti casca l’occhio su uno di loro, puoi star certo che si sta infilzando in bocca del cibo. Se chiedi al cameriere che cosa mai ci sia nei piatti di portata che vengono serviti ai tuoi vicini, quelli se ne accorgono, intuiscono la tua curiosità e senza tante cerimonie t’invitano a “favorire”. Come rifiutarsi, a quel punto? In un’atmosfera così dissoluta, cadono anche le tue remore e ti metti ad assaggiare, anzi a divorare e bere, tutto quel che c’è. Trippa coi porcini, maccheroni col sugo di castrato, tagliatelle con funghi, stoccafisso in umido, maialetto arrosto, totani alla brace. La cucina è saporita ma molto accurata, e sul fondo del piatto non rimane mai l’unto rappreso dei locali alla buona. Finalmente si mangiano anche delle ottime olive ascolane, che di solito, invece, sono oggetto di tremende mistificazioni, mal farcite mal panate e fritte alla carlona. Tra una forchettata e l’altra controllo un tavolo, allietato da qualche presenza femminile: mi pare di capire che i commensali siano riuniti per festeggiare il compleanno di un bambino che dimostra 4 o 5 anni. Mentre gli adulti si avventano sui piatti di portata, il piccolo – metodico – scarta tutti i regali (scarpe da ginnastica, maglioni, una cartella, una tabella complicata con tasti da schiacciare). Inizia poi un suo gioco particolare e fantasioso fatto con le scatole, i nastri, la carta velina: come quasi tutti i bambini ignora i regali e mostra una predilezione per il packaging.
Viene voglia di fare sera per vedere quando mai finiranno di mangiare gli altri clienti: tra chi si scava nei denti intervallando con uno schiocco come fosse un bacio e poi si cinge la pancia all’altezza del petto (le braccia, se messe più in giù non arrivano a chiudere la circonferenza) addormentandosi al tavolo di botto, e chi invece continua a macinare bottiglie e portate, posso solo augurarmi che nessuno di loro faccia il camionista o un qualsiasi altro lavoro in grado di mettere a repentaglio la vita della gente, che so, il guardiano della diga o del passaggio a livello, il sincronizzatore di semafori. Ma quando si pagano 35 euro in due, e mentre si accontenta il palato ci si gode pure lo spettacolo degli orchi che mangiano, ogni moralismo o legittima paura viene messo da parte senza nemmeno pensarci su.
Esco, e mentre l’occhio si riposa sulla parete di un magazzino dove qualcuno ha scritto: “Troia mi fai sempre piangere” (dappertutto, sempre gli stessi problemi) faccio le mie brave considerazioni. Per non farti lasciare rimasugli nel piatto negli anni ‘50 la mamma ammoniva: “Hai proprio bisogno di un po’ di guerra”; negli anni ‘60 la formula era divenuta: “Pensa ai bambini biafrani”. Qui, nel 2002, non sembra esserci bisogno di alcun richiamo. Oggi il cibo o non ce l’hai del tutto oppure è divenuto il coacervo di ogni problema, basta guardare la gente mentre mangia, i ciccioni nelle colline marchigiane, le magre stralunate dalle diete a Milano, quelli attaccati alle sigarette che sbocconcellano senza passione… tra guerre minacciate e carestie ovunque ma altrove, crolli della borsa e benessere diffuso, come al solito non c’è alcuna tregua all’infelicità umana.