Che gran soddisfazione, mangiare bene; per giunta serviti come si deve e in un locale arredato con gusto impeccabile. Provare sensazioni che non siano mordi e fuggi, o peggio da oblio, e restare col desiderio di tornare in quel ristorante, anche se è fuori dalle mete consuete.
E dire che la gita era partita all’insegna della bruttezza più deprimente. Vedere dal treno la costa adriatica tra Rimini e Ancona, scempiata da un’edilizia infima che fa ricordare certi insediamenti ai margini delle zone turistiche della Turchia, è proprio sconfortante. Pensando forse che il lungomare fosse ormai irrimediabilmente deturpato dal correre parallelo della ferrovia, si è approfittato per trafiggere la costa con capannoni, industriette, villini e palazzine scalcinati per povertà progettuale oltreché dei materiali utilizzati. Persino le case meno recenti paiono misere, e le ristrutturazioni hanno acuito il problema, con ritocchi all’insegna di un eclettismo sconclusionato. Ciliegina sulla torta la raffineria API di Falconara, uno dei tanti poli industriali italiani ficcati in zone a vocazione turistica.
A pochi chilometri dal luogo di questo misfatto c’è Senigallia, località nota ai gourmet e ai lettori di guide gastronomiche per la presenza di ben due ristoranti rinomati. Il centro del paese è raccolto intorno a un canale che sfocia nel mare, ed è assai grazioso. Parla di un passato prevalentemente volto al commercio agricolo e ittico, con begli edifici settecenteschi in mattoni e dagli ampi porticati, e il foro annonario neoclassico a pianta circolare, con la pescheria al centro, sotto il colonnato. Se gli orari lo consentono, si può passare ad ammirare la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, esposta fino a ottobre nel Palazzo del Duca nell’ambito della mostra sui Della Rovere, che dalla fine del ‘400 per un secolo e mezzo governarono Senigallia e Urbino. Visti i portici e i pesci e, apparsa ai nostri occhi ammirati l’intima perfezione rinascimentale della Madonna, camminando lungo la banchina del canale arriviamo al mare e soprattutto da Uliassi, che di fatto era la nostra meta.
Il ristorante si trova tra lo sbocco del canale e la spiaggia, in una bella costruzione con terrazza porticata in legno, che ricorda gli chalet californiani in riva al mare – quelli dei film dove c’è sempre un labrador, una moglie insoddisfatta, uno marito scrittore semialcolizzato, e dei nuovi vicini che stanno per combinargli qualcosa.
Ai fumatori è riservata una sala in stile pesudo-giapponese, con tovagliette striminzite, bambù, vista sul canale e su una vecchia industria abbandonata. I non fumatori vengono invece accolti in una sala più grande e luminosa, con una pianta di limone al centro, mobili di legno bianco a tapparella e soffitti blu, qua e là alle pareti dei dischi cromati che, come fossero specchi, rimandano l’immagine della sala amplificandola. Qui le tovaglie coprono l’intero tavolo, e tra una portata e l’altra l’occhio riposa sul rincorrersi delle onde, sulla sabbia, su chi passeggia raccogliendo conchiglie.
Il menu degustazione è uno dei più ricchi di portate che mi sia mai capitato di trovare. All’insegna del divertimento, pieno di imprevisti e creatività, è perfettamente congruo con l’atmosfera del locale, che, benché chic, è priva della raggelante pretenziosità da cui è afflitta gran parte dei ristoranti di livello. Nel susseguirsi delle portate assaggiamo una memorabile cotolettina di gamberi con mostarda di pomodori verdi, uno squisito cannolo croccante di mais con ripieno di formaggio di capra, del calamaro nostrano crudo con pesto di sesamo e alga, scampi crudi con ricci di mare mantecati, salsa di yogurt e cetrioli (tzatziki) con calamarini e cipolle fritti, triglie gratinate con nocciole e verdure essicate, dello squisito baccalà fritto su panzanella e salsa di peperoni, tonno con peperone ananas e soja… Qualcosa di non riuscito? A me non sono piaciuti la ricciola con latte di cocco, in cui il cocco la fa da padrone, e le troppo saporite tagliatelle con raguse (lumache di mare) e tordi. Perplessità infine sugli spaghetti ai ricci, piatto di cui continuo a preferire il sapore metallico ottenuto con la non-ricetta (nel senso che non richiede cottura né artifici) tradizionale. Del resto anche gli ottimi romanzi hanno qualche pagina poco riuscita, ma nessuno si sogna di accanirsi a criticarla, perché quando l’insieme dà soddisfazione viene naturale soffermarsi ad analizzare o tornare col ricordo solo alle pagine più belle.
Per arrivare al termine delle portate, dolci compresi, siamo rimasti seduti dall’una alle quattro del pomeriggio, con le portate servite a un ritmo regolare, senza accelerazioni e pause dovute alla necessità di allinearci agli altri tavoli, come invece capita sul mare opposto, il Tirreno, nel peraltro eccelso Gambero Rosso di Pierangelini.
Il servizio è efficiente ma non assillante e ti viene lasciata la “responsabilità” di versarti il vino, cosa apprezzabile soprattutto nei tavoli di due soli commensali. I camerieri, con una sorta di elastico-giarrettiera a stringere le maniche delle camicia, ricordano i biscazzieri dei battelli lungo il Missisipi.
Con una discreta bottiglia di Verdicchio di Matelica il conto sfiora i 100 euro a testa.
Ristorante Uliassi, Banchina di Levante 6, Senigallia – Tel. 071 65463