Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, curiosamente, gli orari del ristorante interno non hanno nulla a che vedere con quelli della mostra in corso. Se è possibile attardarsi nelle sale dell’esposizione fino alle 19, il ristorante apre solo per cena e dalle 20 e 30. Questa strategia commerciale ti fa supporre che la cucina sia davvero imperdibile, come del resto abbiamo letto su un giornale, che la definiva “a cinque stelle”: altrimenti che ci fai, parcheggiato per un’ora e mezza nel giardinetto di fronte alla Fondazione? Osservi con occhio benevolo i cani portati a fare i bisogni, dài un’occhiata ai ragazzi che si rovinano l’appetito a forza di cocktail nel bar interno di foggia stagnoleggiante, e, per sfuggire al volume della musica programmata dal dj che allieta l’ora dell’aperitivo, decidi di fare quattro passi nel vecchio quartiere operaio. Dove, peraltro, non c’è granché da vedere: vialoni, auto parcheggiate, case popolari d’antan – che oggi sembrano graziose -, qualche bar buio e odoroso di fiati alcolici e sigarette, con i pensionati che giocano a carte. Passeggiando rivedi le immagini della mostra che hai visitato: una straniante, straordinaria, stupefacente serie di videoinstallazioni di Doug Aitken. Il tema principale dei grandi pannelli avvolgenti su cui scorrono le immagini è la perenne trasformazione del mondo, in gran parte rappresentata da immagini filmate in Antartide e Patagonia, con acqua che scorre, ghiaccio che si sbriciola, cascate, rivoletti, gocce. E tu, spettatore al centro di questo fluire, rappresenti l’unica cosa che resta, apparentemente intrasformata. Uno degli allestimenti multimediali – con tre pannelloni che inscenano storie diverse: un negro che cammina e canta e inveisce in qualche bidonville, un giapponese incravattato che parla da solo in una stanza, una ragazzina che gioca a squash senza racchetta, a manate – ha al centro un enorme pouf circolare, ad anello. Nel buio dell’ambiente, avvolta dalle immagini e dai suoni che le corredano, una ragazza longilinea e chic è accoccolata ai piedi della ciambella, immobile. Ti convinci che la ragazza sia una pensata dell’artista. Una bambola installata lì, anch’essa, a rappresentare un perno umano intorno al quale ruotano le scene del video. Poi, però, con tua grande delusione, l’installazione volta la testa: “Allora ci vediamo più tardi!” esclama nel telefonino che non avevi visto, si alza e se ne va caracollando sui tacchi. In pratica, con il tremendo rumore della musica prodotta dal bar della Fondazione, l’unico posto dove poter telefonare in santa pace era tra i suoni eleganti e soffusi della mostra.