Caramelle di pasta phillo ripiene di gamberi e zenzero; fave secche fritte; panzerottini con ricotta scanta (o squanta); piccoli arancini di riso sodo, non impapponito come purtroppo capita quasi sempre; sgagliozze (è una di quelle parole pugliesi di cui piace il suono al di là del significato), cioè scaglie di polenta fritte. E questo solo per accompagnare l’aperitivo. Forse ci si potrebbe fermare qui, come fanno gli happy-houristi milanesi, che prima di cena tornano a casa già sazi – benché, nel loro caso, di accozzaglie realizzate con ingredienti di terz’ordine. Noi, in effetti, già solo con quest’abbondanza di squisiti stuzzichini ci sentiamo felici, realizzati e però indotti in tentazione e curiosi di assaggiare almeno tre quarti dell’allettante menu che ci siamo fatti anticipare. Lo saremmo anche se ci avessero servito in uno stanzino dai muri scrostati, e invece siamo in faccia al mare, alla Peschiera di Monopoli, giunti alla meta dopo un viaggio letteralmente infernale. Le autostrade percorse per arrivare, quelle del Lazio, della Campania e soprattutto della Basilicata, scorrono tra costoni di montagne completamente arse, tra colonne di fumo che spirano dai boschi, tra cigli di strada costeggiati da cartelli, cespugli e alberi carbonizzati. Poi, con i modi fulminei in cui si avvicendano i sogni, siamo piombati magicamente in una zona della Puglia dove ogni colore è carico, vivo, scintillante come le fotografie ritoccate delle cartoline: il rosso campo da tennis della terra lavorata, il grigio verde delle foglie degli ulivi e dei carrubi, il bordò rugginoso dei melograni, le variazioni giallo aranciate dei fiori di lantana , il bruno metallico dei muretti a secco che delimitano i campi, il bianco perfetto degli intonaci di masserie e trulli. La Peschiera è una fascinosa costruzione a un solo piano, con undici splendide camere e il ristorante, ogni ambiente con una terrazza coperta dal pergolato che termina a filo del mare su scogli bassi e levigati. Nell’Ottocento era la riserva di pesca di un nobile pugliese; i pesci, che in certe stagioni amano nuotare controcorrente e sono attratti dall’acqua dolce, si infilavano nel canale di acqua surgiva collegato alle vasche utilizzate per allevare cefali, saraghi, orate e spigole. Oggi queste vasche sono piscine di acqua di mare, alle spalle dell’edificio. Si mangia sulla terrazza del ristorante, all’ombra del berceau, circondati da bianchi e da blu, in un’atmosfera intima, molto elegante e al contempo molto semplice. Assaggiamo crema di pomodoro con scampi, alici delicatamente marinate, tartare di tonno al fumo di erbe aromatiche (con un una punta di amarognolo eccessiva, come un retrogusto di caminetto spento); e ancora: gamberini al vapore con carciofi di Normandia, violette di Gallipoli (sono gamberi particolarmente saporiti) al vapore; orecchiette al pomodoro, zucchine e cacioricotta; spaghetti spezzati, in brodo con scorfano alla marinara. Tutto è ben preparato e dà soddisfazione. Sono piatti della tradizione pugliese, modernizzati e resi ancor più appetitosi da qualche tocco che nelle preparazioni assaggiate non è mai futilmente (o dannosamente) creativo. Resta la curiosità di provare i crudi di pesce, i tubetti con cozze e rucola di campo, i fritti di pesce e verdure. Ai tavoli accanto si sentono soprattutto accenti pugliesi: vorrà forse dire che in una regione dove la cucina tradizionale è squisita e particolarmente attuale (pesce crudo e tante verdure) le controllate innovazioni dello chef della Peschiera sono ben accette. Il conto, con un vino di medio prezzo, è sugli 85 euro a testa. A ora di pranzo è necessaria la prenotazione.