Alcune scene esemplari del best seller di Pietrangelo Buttafuoco, Le uova del drago, sono ambientate tra Leonforte, Agira e Regalbuto. Siamo a pochi chilometri da Enna, nel 1943, e quattro tedeschi uccidono da soli trecento “liberators”. Da allora, scrive Buttafuoco, “non capita più niente in quel pezzo di Sicilia – a parte l’attesa per un immenso parco divertimenti progettato nella parte di campagna dove si consumò la battaglia”.
Poiché i posti dove non capita più niente ci hanno sempre incuriosito, siamo andati a respirarne l’atmosfera prima che per davvero qualche autorità locale si metta in testa di realizzare l’agognato Etnaland (data la contiguità col vulcano, immagino lo chiameranno così). In attesa, dunque, che il vuoto venga riempito da case delle streghe e ottovolanti, lasciata l’autostrada Palermo-Catania si fanno una decina di chilometri di paesaggio lunare e remoto, brullo, tutto tornanti e su-e-giù, senza incrociare né anima viva né case diroccate o palesemente abusive, e nemmeno automobili anche solo parcheggiate. Finalmente, all’ennesima svolta, compare il cocuzzolo su cui è arroccato Leonforte, e, accanto, quello di Assoro. Più lontano, e più imbiancato di case, quello di Agira. Sono posti da ciuchi, o almeno così te li figuri. Pare di vedere la Gina Lollobrigida dei tempi d’oro scendere da un ripido pendio accomodata su un asinello. L’insieme è straordinariamente pittoresco e verrebbe voglia di strappare al flusso di auto dell’autostrada i turisti diretti alle solite località, Taormina e Siracusa e Agrigento, e farli passare di lì, che è pur sempre Sicilia, e forse lo è anche di più. Sono luoghi di grande passato (“Siamo più antichi di Roma”, ci dirà il ristoratore), la cui popolazione è stata decimata dall’emigrazione. In questi paesi bianchi accoccolati – anzi, arroccati – sui promontori, si trovano reperti archeologici e vestigia d’ogni genere, ma per strada non si vede quasi nessuno, se non gruppetti di uomini anziani, seduti fuori dai bar a guardarsi tra loro, senza dar mostra di farlo. Al ristorante La Fontanella di Assoro, invece, c’è più vita: una tavolata di ragazze, un gruppo di impiegati, una coppia (“Per cultura e genetica siamo il migliore dei paesi circostanti”, dichiara l’orgoglioso ristoratore, e intanto poggia sul nostro tavolo due tomi con la storia di Assoro). La cucina è verace e basata sui prodotti dell’agricoltura locale: il grano, anzitutto, con cui si fa un pane casareccio squisito, di quelli che basterebbero da soli a darci soddisfazione; e poi fave, olive, mandorle, noci, qualsiasi pietanza abbia a che vedere con le pecore, e d’estate le famose pesche di Leonforte. Abbiamo assaggiato un tenero e delicato agnello al forno con patate, un’ottima tuma di pecora impanata e passata sulla piastra, olive al forno con verdure locali sott’olio (e aglio!), un’impeccabile “macco” (purea) di fave. Più grezzi la salsiccia e il salame nostrano, con l’onnipresente retrogusto di finocchietto selvatico. Vale la pena di assaggiare anche un’altra specialità del luogo: la gelatina di maiale. Le porzioni sono da orco, come capita in questi luoghi non corrotti dal fighettismo contemporaneo. Il pasto completo, con una caraffa di vino dell’Etna, vi costerà sui 18/20 euro.
Ristorante La Fontanella, contrada Paglialunga, Assoro (EN). Tel.: 0935 667140