“Inopportuni e troppi / Son del tutto per me gli altri apparecchi / Di molto cacio, di molto olio e untume, /come se a gatti s’imbandisse mensa”. Parole di Archestrato di Gela, scrittore gastronomo del IV secolo d. C., scritte in spregio dell’eccesso di condimenti (questa e altre dotte citazioni le trovate in “Perché agli italiani piace parlare di cibo”, di Elena Kostioukovitch, Sperling & Kupfer). Ecco: ad Archestrato l’Osteria Paradiso di Palermo sarebbe andata benissimo, perché nella semplicità e nel non voler strafare ha trovato la cifra dell’equilibrio culinario. Locale conosciutissimo in città, consiste di appena due stanze, cui si accede scendendo qualche gradino. I tavoli sono solo sei, e può capitare di ritrovarsi commensali – sotto l’occhio di papa Wojtyla che benedice da un vecchio calendario – dell’editore Sellerio accompagnato da uno scrittore, di facce da film di malavitosi (crani rasati, giubbotto di pelle, occhiali scuri, croce dorata al collo) o di coppie agée dall’aria benestante. I clienti sono perlopiù maschi, mentre in cucina, dietro una vetrata, si vedono solo donne. Sui tavoli, tovaglie di cotone dorato, coperte a loro volta da teli di spessa plastica trasparente – ma noi, per una volta, eviteremo di fare gli schizzinosi.
Il servizio è veloce; e per fortuna, ché altrimenti si farebbe in tempo a saziarsi di ottimo pane croccante al sesamo. Fra gli antipasti bisogna assolutamente assaggiare il bollito alla palermitana, servito a cubetti con olive e acciughe sotto sale. Ci sono poi ghiotti carciofi e fave piccanti, e insalata di mare (polipo, calamari e cozze). Di primo solo spaghetti, serviti molto al dente: con broccoli; alla “grassa” (con le patate dello spezzatino); con sarde, finocchietto e pan grattato (“atturrato”). Per secondo, carne alla pizzaiola, bollito o bistecca panata. Oppure un pesce tra quelli esposti nel bancone refrigerato: fritto, alla griglia o all’acqua pazza. Appena entrata noto un corpulento signore solitario, che mangia con aria beata un dentice alla griglia, grande abbastanza da ricavarne quattro porzioni; mi viene voglia di emularlo, ma finisco per lasciarmi ingolosire dalle triglie, fritte perfettamente in padella. Come contorno, giri (biete) e broccoletti, e, per finire, fichi d’India e cassata. Con un discreto bianco dell’Etna sfuso, il conto è nell’ordine dei 30 euro.
Per digerire, due passi nel parco dell’adiacente Villa Whitaker. Gli alberi di ficus sembrano architetture di Gaudì, con radici simili a stalattiti colate dall’intrico del palco di rami: viene subito voglia di arrampicarsi e scalarli da tutte le parti, come ragazzini. La frescura del verde, nel sole scintillante di dicembre, contrasta con la cupezza della sfarzosa e lugubre villa, in stile neogotico veneziano. Gli arredi interni, tutti d’epoca, con pesanti boiseries nerastre, mobili ungulati e caminetto d’aspetto elefantino, sono da castello di Dracula, e per un momento ci si sente straniati, come si fosse catapultati nei Carpazi.