“Signori, posso aggiungere del vino o fate voi?”, chiede il cameriere del ristorante Don Camillo di Siracusa, all’Ortigia. Chissà se ha letto l’articolo sul vino del brillante polemista Christopher Hitchens. Per una volta, anziché prendersela con multiculturalismi, religioni e teocrazie, l’intellettuale britannico si è scagliato contro i ristoratori che fanno gestire al cameriere la bottiglia del vino, in modo da versarne a ritmi forsennati senza chieder nulla ai clienti. Col risultato che si finisce per bere troppo, e se si resiste ci si trova col vino caldo nel bicchiere. “Grazie, facciamo da soli” si vorrebbe poter dire, prima di ritrovarsi col bicchiere pieno e la bottiglia vuota. Dunque, il cameriere del Don Camillo, consapevole o no che fosse, si è trovato in linea con la rivendicazione hitchensiana dei diritti del cliente di ristorante. Ma nessuno è perfetto, e il suddetto cameriere, interrogato sulla materia prima usata per le squisite palline di baccalà frullato, croccanti come crosta di pane benché immerse in una passata di fave, non ha saputo dire se si trattasse in effetti di baccalà o piuttosto di stoccafisso. Ha dovuto chiedere in cucina (ed era stoccafisso, cioè merluzzo seccato al sole, non conservato sotto sale). Per il resto, tutto concorda meravigliosamente con la nostra immaginaria carta dei diritti del cliente. Nella canicola sfibrante di una giornata di sole cannibalesco, quando nemmeno i vicoli ombrosi dell’Ortigia riescono a darti ristoro, il Don Camillo offre riparo e frescura naturale, oltre a quella dell’aria condizionata. L’ingresso è celato da impalcature e teli di plastica che foderano la facciata del palazzetto in ristrutturazione, ma dentro ci si trova d’incanto in una grande cantina, con soffitti a volta, tavoli grandi e rispettosi della distanza necessaria all’intimità del conversare, scenografici armadi che contengono casse di vino e coprono gran parte delle pareti. Il colore di tovaglie e rivestimenti delle comode sedie, corda e marrone, si accorda con eleganza al pavimento e al soffitto di pietra. L’occhio non è disturbato da brutti quadri, come spesso capita. Sono buoni il pane e i grissini al sesamo (il diritto a un buon pane è uno dei più calpestati nella ristorazione italiana), e il servizio non è troppo lento. Il menu, classico ma informato dei fatti della cucina contemporanea, fa venir voglia di assaggiare tutto, e le descrizioni dei piatti non tradiscono. Sono squisiti, per esempio, i cavati con seppie e pistacchi di Bronte, un piatto che sembra una colata di lava nera; ma sono di gran soddisfazione anche i gamberoni grigliati al lardo con caponata. Avvincente il carrello di formaggi siciliani: vien voglia di sigillarlo e spedirselo a casa per studiarlo con la dovuta attenzione. Con un vino di prezzo medio, e togliendosi lo sfizio di assaggiare molto più del necessario a saziarsi, si spendono circa 55 euro. Peccato non averlo a Milano, un Don Camillo.