Da prima di Natale al giorno dopo l’Epifania, gran parte dei ristoranti s’imbruttisce. Nel tentativo di creare un clima adeguatamente festoso, i gestori attaccano alle pareti e fanno penzolare dalle appliques stentati festoncini, con corredo di palle e pupazzetti raffiguranti renne, babbinatale, pinetti plasticati. Decorazioni che perlopiù si aggiungono alle brutture permanenti e ai caotici inestetismi tipici della maggioranza dei locali italiani.
Non sfugge alla regola L’Arco dei Cappuccini, a Taormina. Una sala da quaranta posti, che raddoppiano d’estate quando si può mangiare all’aperto, la cucina al piano superiore, raggiungibile tramite una brutta scala a chiocciola (ma le scale a chiocciola sono, come i letti a castello, irrimediabilmente sgraziate), le pietanze spedite ai camerieri tramite montavivande.
Eppure, benché l’aspetto della sala non sia dei più accoglienti, con quegli arredi seriali pensati per i locali da ticket restaurant, e le luci così forti che si potrebbe cercar di cavarsi una spina dal polpastrello, la cucina di pesce e la scelta della materia prima sono encomiabili. Non ci s’immaginerebbe di trovare un ristorante simile nel pieno centro di una località come Taormina, popolata di turisti benestanti ma anche flagellata da antiestetiche comitive di americani o giapponesi, scaricati per poche ore dalle navi da crociera a passeggiare nel Corso, fra negozietti di costosa chincaglieria e coralli variamente assemblati, colorate ceramiche di Caltagirone e le immancabili cartoline con le foto di von Gloeden, icone dell’omosessualità di fine Ottocento che hanno notevolmente contribuito alla fama di Taormina, ritraendone i giovanetti locali apollineamente discinti e con il pene in bella vista.
All’Arco dei Cappuccini, dunque, la corrività degli arredi contrasta col tono della città; ma le preparazioni sono rigorose e addirittura raffinate, senza strombazzamenti né fronzoli o concessioni ai piatti più internazionalmente riconosciuti come italiani (e dunque più invoglianti per i turisti stranieri). Certo, ai gestori non ci vorrebbe molto per fotocopiare un menu del giorno, invece di far recitare al cameriere la lista delle pietanze: per chi non parla italiano o per i distratti con poca memoria c’è sempre bisogno di una seconda elencazione. E se poi si capitasse nel locale per caso, senza esser stati consigliati da recensioni o amici del posto, ci si potrebbe preoccupare di quanto costino i piatti offerti. Ciò non toglie che, specialmente in un ristorante di pesce, l’offerta di un menu non standardizzato sia lodevole, poiché segnala l’abitudine a rifornirsi del pescato del giorno.
Il ristorante è aperto da quattro anni e gestito da una coppia, marito di Bolzano e moglie di Castelmola, paesello arroccato sopra Taormina. Di fatto, due luoghi di montagna; da cui il tentativo di lanciare anche piatti di selvaggina, ma a detta del cameriere con qualche frustrazione: a Taormina i clienti vogliono mangiare pesce, o al massimo piatti di carne della tradizione siciliana. La cuoca, prima di conoscere il marito a Bolzano dove entrambi lavoravano, ha collaborato con alcuni dei più quotati chef italiani, nonché in Francia con Paul Bocuse. E non stupisce. Gli antipasti sono tutti ottimi: in particolare è squisito il palamito delicatamente marinato su letto di carciofi appena sbollentati; e vanno provati – crudi o alla griglia – gli occhi di bue, una sorta di patelloni elastici eppure croccanti. Sempre tra gli antipasti troviamo gamberoni di Mazzara crudi, polipetti saltati in padella con aceto balsamico, soppressa di polipo, e tutti i carpacci di pesce (spada, ricciola, sarago e scorfano). A quel punto si sarebbe già sazi, anche per aver fatto piazza pulita del cestino del pane, ottimamente assortito. Ma vanno in ogni caso provati gli spaghetti al nero di seppia, e – ora che è stagione – quelli ai ricci, oppure le bavette con triglie e zucchine o con spada e finocchietto. Tra un assaggio e l’altro ho rischiato di apprendere nuove cose dalle vicine di tavolo, due adolescenti di Taormina, in compagnia delle famiglie. Poco interessate a nutrirsi, si scambiavano informazioni sulle procedure dei vari piercing. “Ti prendono il labbro con una pinza e lo tirano, cercando di sollevarlo il più possibile. Poi, con una specie di pistola…”: a quel punto ho smesso di ascoltare, cercando di concentrarmi sulla mia occhiata, aperta e gratinata al forno con pangrattato e erbette. Per la verità un po’ asciutta, quindi da preferire nella versione “alla ghiotta”, come lo scorfano, cioè con capperi, olive e pomodoro fresco. Oppure, sempre nell’ambito del pesce gratinato, si può optare per i calamari. Ormai sazi, rimane il rimpianto di non aver assaggiato i dolci preparati dalla cuoca: per esempio la bavarese ai marron glacés e salsa ai cachi, o il parfait al miele d’arancio. Bevendo un bianco siciliano, il Terre della Baronia, si spendono circa 45 euro a testa. A quel punto non rimane che darsi a una passeggiata digestiva lungo il corso e, nei punti panoramici, guardare in giù verso il mare. Con lo sguardo che finisce per inciampare negli effetti congiunti di condoni edilizi e di pessime amministrazioni del patrimonio paesaggistico: cantieri aperti a più non posso, uno dei quali (pubblico) bloccato da anni per la prossimità a siti archeologici su cui altri (privati) hanno costruito come nulla fosse; e la suggestiva veduta dalla discesa a mare di via Pirandello in larga parte deturpata dal cantiere di un albergo di dimensioni spropositate, con l’aspetto di tetra povertà progettuale dei condomini di periferia.