Alla fine della scorsa estate, Sebastian Matta, pochi mesi prima di morire, espose delle terracotte in stile surrealista, nella mostra “L’antenato”, al Frantoio di Capalbio. Una collettiva di contemporanei di riguardo, in cui lui però faceva la parte della celebrità. Rattrappito in una sedia a rotelle, venne fatto scendere da una limousine e issato fino all’ultimo piano, dove le sculture erano esposte su balle di paglia. Subito cominciarono i capricci d’artista: voglio dell’acqua, no invece la menta, e via pretendendo con tono sempre più imperioso. Infine si fa portare un accendino e, con estremo gesto di surreale mattitudine, comincia a dar fuoco alla paglia. Né morti né feriti, nemmeno tra le opere esposte, e sorrisi imbarazzati degli organizzatori. Insomma, a Capalbio e dintorni sono abituati alle intemperanze di una mondanità meno spendacciona di quella che frequenta la Costa Smeralda, ma altrettanto capricciosa. Figuriamoci cosa non hanno da raccontare i gestori dell’Ultima spiaggia, arcinoto (anche perché privo di concorrenti attigui) stabilimento balneare in cui si radunano i villeggianti che non amano arrangiarsi lungo l’adiacente e suggestiva spiaggia libera. Sulla mondanità più o meno liberal che s’assiepa nella zona sono stati sparsi fiumi d’inchiostro, e dunque evito di fornire l’elenco dei personaggi presenti il giorno in cui m’è capitato di trovarmi lì. Come mi ha spiegato un frequentatore assiduo: “qui inciampi sempre in qualcuno” – qualcuno di noto, ovviamente. Mare ondoso, vento teso, tutti gli ombrelloni i lettini e le tende aperti a dare l’impressione di un affollamento che in realtà non c’è. Prima di sedermi al ristorante decido di fare una passeggiata. In direzione sud c’è la spiaggia di un campeggio, con vista sulle ciminiere della centrale di Montalto di Castro; sicché mi dirigo a nord, lungo la spiaggia libera, che si stempera nelle dune recintate dal WWF, con una splendida vista sul promontorio dell’Argentario. Lungo l’arenile un artista anonimo, o semplicemente inconsapevole, ha piantato nella sabbia alcuni imponenti tronchi lasciati sulla battigia dal mare, costruendo così un pittoresco fondale di levigati scheletri d’albero. Nonostante sia un sabato di luglio i bagnanti sono pochi, sparpagliati, e, man mano che ti allontani, sempre più di sesso maschile e nudi.
Quando ritorno è finalmente ora di pranzo, e così raggiungo il tavolo prenotato. All’Ultima spiaggia funziona così: una zona dove la gente va all’arrembaggio, quella del self service, con code estenuanti di corpi unti e pressati, e la ricerca spesso infruttuosa di un tavolo libero, l’occhio vigile a sorvegliare chi stia infine per alzarsi e il tentativo di qualche sprovveduto di sconfinare nella zona adibita a ristorante. Quest’ultima è invece frequentata da clientela perlomeno in camicia, tavoli ben apparecchiati, ombra garantita, vista su una barriera d’oleandri e poi la spiaggia e il mare. Per chi non trovasse posto al ristorante esiste l’alternativa del servizio all’ombrellone.
Il menu (di solo pesce) è sufficientemente vario, scritto a mano su carta ocra e porosa, quella che si usa per asciugare i fritti, e senza prezzi accanto alle portate – sulla fiducia, insomma. I camerieri indossano e subiscono una maglietta con la scritta “ciurma” (in origine l’insieme degli schiavi o dei forzati incatenati ai remi, “gente di bassa lega, vile marmaglia”). Tuttavia si comportano con gentilezza e sollecitudine. Dopo aver divorato l’onnipresente misto crudo, nuovo piatto forte dei ristoranti di pesce della penisola, passo alle margherite con sugo di asparagi di mare e pesce spada: vale a dire una sorta di ravioli ripieni di branzino e gamberetti, di pasta troppo spessa e dura sulle giunture e dal condimento vagamente unto. Il tutto coperto da rucola, che scarto subito con cura. Possibile che ci sia ancora chi usa un’erba così amara e piccante per condire preparazioni di pesce? Qui evidentemente c’è, visto che nel menu la accostano sia ai primi sia ai secondi. Tra l’altro si tratta di rucola romana, quella davvero saporita, non il genere slavato in vendita dai fruttivendoli lombardi. Il fritto misto è dignitoso, ma la cosa più riuscita, decisamente buona, è la gallinella al forno, cotta dapprima tutt’intera e poi aperta e ripassata in forno per qualche minuto. Durante il pranzo osservo un uomo solitario, le scarpe senza stringhe, che mangia e beve di gusto, leggendo con attenzione l’inserto libri della Stampa. Poi, quando si alza, con la sigaretta accesa in mano, si dirige al tavolo accanto al mio, dov’è seduto Umberto Veronesi con famiglia. Si presenta e, piegato a uncino su di lui, illustrandogliene il contenuto, gli regala un libro di cui riesco a sbirciare la copertina: “Incesto e incestuale” di Paul Racamier. La prego, spenga quella sigaretta!, vorrei dirgli. Proprio io, che ho smesso di fumare dopo aver letto una terrorizzante intervista a Veronesi, vedermelo lì – mite – e assediato dal fumo passivo… Finalmente l’intruso se ne va con la sua sigaretta, e, mentre tutti si buttano sul vino e mangiano e in qualche modo finiscono per danneggiarsi, l’ascetico professor Veronesi non tocca cibo e beve solo acqua. Ahinoi, peccatori!
Infine, il conto: 45 euro, che per il luogo, il servizio e la qualità (media) del cibo non stupiscono, né – in verità – inducono ad affezionarsi a quei tavoli.