Provate a chiedere una copia del menu in un qualsiasi ristorante lussuoso di Mosca: vedrete la cameriera assumere un’espressione di improvvisa diffidenza, poi arriverà al vostro tavolo un manager che, dopo avervi tempestato di domande sull’uso che volete farne, vi chiederà la vostra e-mail in caso il suo superiore l’autorizzi a spedirvela. In seguito, sulla vostra richiesta calerà comunque una cortina di impenetrabile silenzio. Niente da fare: la Russia si è indubbiamente occidentalizzata, ma ossessioni di segretezza, paranoie spionistiche e verticismi burocratici fondati sul sospetto sono duri a morire. Qualcosa di simile, perlomeno nelle premesse, mi è curiosamente capitata a Firenze, nel celebrato ristorante Cibrèo. Al termine di un ottimo pasto, ho chiesto una copia del menu alla gentile signora d’aspetto svizzero-tedesco che aveva raccolto la comanda. Per tutta risposta, la Frau si è seduta al tavolo e ha iniziato a scrivere l’elenco di ciò che era stato servito. “Mi scusi,” ho precisato allora io, “preferirei il menu completo, compresi i piatti che non ho scelto.” La signora ha assunto un’espressione circospetta: “Devo chiedere l’autorizzazione a Fabio Picchi, ma è appena uscito. Mi lasci la sua e-mail”. Dopo la censura postsovietica, ecco un caso di censura fiorentina. Tra l’altro, mentre nei ristoranti di Mosca una lista scritta esiste, al Cibrèo, uno dei due più famosi locali di Firenze, non c’è. I primi piatti hanno tutti lo stesso prezzo (18 euro), e altrettanto i secondi (34 euro), includendo coperto, antipasti e dolcetti: e il foglietto imbustato che vi informa di quest’encomiabile scelta dello chef-patron è l’unica cosa che troverete da leggere. Il menu, appunto, esiste solo in forma orale, recitato dalla suddetta signora. Una sventura per chi, come me, fatica a concentrarsi, vorrebbe assaggiare tutto ed è indeciso per natura. Scusi può ripetere? Ancora una volta, le dispiace? Finisce che ti senti un gran rompiscatole, non osi pretendere ulteriori ripetizioni e ti ritrovi a scegliere praticamente a caso. Invece la composizione di quello che si vuole mangiare andrebbe soppesata, proprio come le parole scritte: ne trovi una, la avvicini a un aggettivo e a un verbo, scopri che non c’è equilibrio col periodo precedente, smonti e rimonti la frase.
Va detto che il giorno dopo ho ricevuto il sospirato menu, potendo così fare delle considerazioni sulle cose godute e quelle perse, con conseguenti programmi di nuovi viaggi a Firenze per integrare la conoscenza dei piatti. Il locale, in pieno centro, è di un vecchiotto classicheggiante, privo di lussi e di stilemi da architetto, decisamente confortevole. All’ingresso brucia incenso, e purtroppo un po’ di quell’odore da casa di hippy s’insinua nella zona ristorante. Ma quando, imprevisti, cominciano ad arrivare gli antipasti, i profumi del cibo prendono fortunamente il sopravvento: squisita la trippa di vitello, indimenticabile lo sformatino di gelatina di pomodori, mentre l’aglio che profuma il baccalà mantecato fa preoccupare per le ricadute sul resto della giornata. Tra i primi ho assaggiato il passato di zucca gialla, che ho trovato un po’ sciapo, forse perché abituata alla sapidità delle zucche mantovane, e un succulento sformato di patate e ricotta condito con ragù di carni bianche. Non richiesto è arrivato dalla cucina un consistente assaggio di gustosa minestra di pane. Poi, come secondo, ho scelto il collo di pollo ripieno, che viene servito con la testa del pollo ritta sul piatto, a mo’ di macabro totem, e con una maionese gialla di quelle che “stanno in piedi da sole”: è una pietanza molto pepata, gustosa e non digeribilissima. Alla fine di questo tour de force, è arrivata anche un’inattesa e prelibata bavarese al cioccolato. Il conto, con un vino di medio prezzo, è intorno ai 70 euro.