Pulmentarii, “polentoni”, è l’appellativo che Plinio affibbiò nella Naturalis historia alle popolazioni italiche che si nutrivano prevalentemente di un pastone di puls (farina) di farro o legumi. Ma fu solo con la scoperta dell’America e con la conseguente diffusione del mais, cioè del granoturco, che si arrivò alla polenta così come la conosciamo. E come la conobbero gli abitanti delle campagne del centro e nord Italia, afflitti per tutto il XIX secolo da epidemie di pellagra (la “malattia delle tre d”: diarrea, dermatite, demenza) causate dall’alimentazione priva di vitamine, basata quasi esclusivamente sulla polenta. Da un’inchiesta condotta a fine ‘800 dalla Regia Accademia delle Scienze nelle campagne ferraresi risulta che l’alimentazione quotidiana di un adulto consisteva, per almeno otto mesi all’anno, in un chilo di polenta, con l’eventuale aggiunta di una cipolla, di un pezzettino di formaggio o di una strusciatina d’aringa.
Tuttavia un sonetto di Clemente Bondi, riportato dall’Artusi, attesta come già a fine ‘700 la polenta fosse divenuta una pietanza gradita anche dai gourmet (Giacque lunga stagione esca aborrita / Sol tra’ villaggi inonorata e vile; / E dalle mense nobili sbandita / Cibo fu sol di rozza gente umile; / Ma poi nelle città meglio condita / Ammessa fu tra’l popolo civile, / E giunse al fin le delicate brame / A stuzzicar di Cavalieri e Dame). E così, quest’alimento che per qualche secolo era stato sinonimo di miseria divenne col tempo degno di tavolate sontuose, da accompagnarsi alla cacciagione, al pesce e al formaggio. E non piace solo a noi umani; laddove i cani la rifiutano, alcuni pesci ne sono invece ghiottissimi: la pesca alle carpe prevede che vengano pasturate con la polenta, usata poi anche per le esche.
Vi chiederete il perché di questa corposa introduzione polentizia: è per raccontare che, pochi giorni fa, in gita in Valsugana, mi sono fermata a mangiare al Maso Cantanghel, dove ovviamente mi aspettava un bel piatto di polenta – e non la malfamata Valsugana che cuoce in un quarto d’ora, comodo surrogato in caso d’urgenza, bensì quella vera, rasposa e soda, da masticare, fatta con la farina gialla a grana grossa di Storo, che è considerata il non plus ultra e proviene dall’adiacente Valle del Chiese. Polenta accompagnata, o “condita” come nei versi di Bondi, da una poderosa coscia di gallo al forno con verdure stufate. Preceduta da un assaggio di ricotta con salsa di pomodoro gelatinosa e vagamente asprigna, e tortino di biete; da un piatto di squisita fesa di manzo salmistrata con puré e cavoli cappuccio; e da tagliolini piuttosto spessi con zucca (insipida) e con piselli coltivati nell’orto del maso. Di seguito alla polenta col gallo, una squisita crema di gelato alla nocciola e l’immancabile piccola pasticceria. Tutte pietanze proposte con raffinatezza esecutiva da ristorante. Come pure da ristorante, e di classe, è l’apparecchiatura: intorno ai bei piatti bianchi Ginori, sono disposte ben nove posate d’argento con l’effige dell’aquila imperiale, la tovaglia e il tovagliolo sono di lino rigido d’appretto, i tavoli anni Trenta hanno il piede rivestito d’ottone martellato e sono assai grandi e ben distanziati. In sottofondo una musichetta dlin dlin tutta pizzicati e arpeggi, quella che in America definiscono da ascensore e che qui da noi è il tipico tappeto musicale delle Gasthof del Trentino Alto-Adige.
Bisogna però ricordare che siamo in un maso, quindi le portate che vi ho descritto sono “prendere o lasciare”; il menu proposto dalla cuoca varia ogni giorno: sei piatti basati su prodotti locali cucinati senza quei grondamenti burrosi che spesso affliggono la cucina di montagna. Il luogo è molto bello e persino comodo da raggiungere: a una decina di chilometri dal casello di Trento in direzione Venezia, affacciato sulla valle, accanto a una fortificazione austroungarica che ora ospita una cantina. Ci si arriva percorrendo nell’ultimo tratto la suggestiva vecchia strada romana, delimitata da muri a secco. Tra l’altro, se dopo aver mangiato si volesse approfittare per sgranchirsi le gambe, la strada è affiancata, più in alto, da un lungo sentiero che unisce le antiche cave di pietra d’epoca romana. Il maso (che include anche una piccola azienda agricola) è composto da tre stanze: quella intermedia è la cucina, le altre sono le “sale”, che possono ospitare in tutto venticinque persone; quindi è sempre meglio prenotare. Le sei portate hanno un prezzo fisso, 33 euro, cui vanno aggiunte le bevande. Cantanghel fa parte di un circuito che offre una selezione di vini ottenuti da vitigni tradizionali trentini, esistenti prima della Grande Guerra quando la provincia di Trento apparteneva all’Impero Austroungarico, e oggi in via d’estinzione. Io ho provato un Groppello di Revò, corposo e vagamente acidulo, originario della Val di Non, prodotto da un’uva che cresce a forti pendenze. Ero sola, e non ho bevuto tutta la bottiglia. All’uscita sono stata rincorsa dal figlio della cuoca e proprietaria: mi voleva consegnare un sacchetto con la bottiglia solidamente tappata, da portare a casa.
Maso Cantanghel, Civezzano (TN). Tel.: 0461 858714