“… nel continuo raccontare ch’egli faceva più e più volte della grandezza del Gran Cane, dicendo l’entrate di quello esser da 10 in 15 milioni d’oro, e così molte altre ricchezze di quelli paesi riferiva tutte a milioni, gli posero per cognome messer Marco detto Milioni”. Marco Polo, insomma, a detta dell’umanista e geografo Giambattista Ramusio, era giudicato un po’ sbruffone dai contemporanei veneziani. Se fosse un personaggio di oggi, me lo figurerei mentre racconta le sue storie milionarie seduto a un tavolo del piano terra dell’Harry’s Bar. Attorniato da modelle con le gambe troppo lunghe per star rintanate sotto la tovaglia, e da rampolli di industriali della marca veneta, coi colletti della camicia così alti da sfiorargli i lobi, mentre ai tavoli accanto siedono facoltosi americani con l’aria da collezionista, avanzi di jet set, tranquilli gentiluomini veneziani dalla lunga consuetudine con l’alcol e con le stranezze del circo biennal-turistico, che parlano fitto, in dialetto. E’, l’Harry’s Bar, l’incarnazione del locale piccolo, un po’ opprimente, sul Canal Grande ma senza vista. Eppure è anche l’incarnazione del posto dove tutti vogliono andare dato che proprio quella scarsità di spazi e quell’assenza di tentazioni paesaggistiche permettono di concentrarsi sull’affollato teatrino che vi si svolge. Perché in fin dei conti quel che fa il successo duraturo di un locale non sono le meraviglie degli arredi, né gli stilisti che ci mettono il nome né gli chef passeggeri, bensì una certa intimità, uno starsene addossati gli uni agli altri, un parlar male della cucina, delle bizze narcisistiche del proprietario, della sua cupidigia, e però salutarlo con gran sorrisi e strette di mano – ché praticamente è sempre presente, e, quantunque scivoloso e palancaio ti riconosce, ti detesta pure lui, ma non sa vivere senza i suoi clienti. All’Harry’s si mangia più male che bene, i cibi sono preparati con immutabile tocco di considerevole grevità, eppure si finisce per tornarci sempre; se non altro per godersi il piacere perfido di vedere i camerieri che respingono straniati gruppi di forestieri in bermuda e canottiera, senza verbose spiegazioni, con un solo inappellabile gesto della mano che indica sconvenienti polpaccioni nudi e calcagni arrossati dentro ciabatte carrarmato. E lo show della tovaglia? All’Harry’s sono bellissime, di lino sottile, d’un elegante giallo tenue. A metà pasto, invece di ramazzare le briciole con dorsi di coltello o palette, come avviene altrove, i camerieri arrotolano con tecnica millimetrica una nuova tovaglia e ne fanno un lungo grissino che poi srotolano sulla tovaglia usata, trasferendovi via via le stoviglie. Altra specialità sono i prezzi. Ingiustificatamente alti, come da fama che li precede e da tradizione veneziana, eppure più bassi della media dei ristoranti dei dintorni grazie a una “voce amica” (è uno sconto del 20% riportato nella ricevuta fiscale) che viene concessa a tre quarti dei presenti e a chiunque ne faccia richiesta con modi da habitué; scegliendo il dignitoso vino della casa si può riuscire a cavarsela con 65 euro a testa.