Il 12 giugno, in anticipo antelucano sull’inaugurazione ufficiale di Italian Factory, la nuova scena artistica italiana, da mezzanotte in poi l’artista Luigi Serafini e Vittorio Sgarbi ricevevano chi avesse la forza di trascinarsi nel calore venezian-amazzonico fino all’Istituto di S. Maria della Pietà. Succedeva questo: Alessandro Riva della rivistaArte, contando sulla una sponsorizzazione sgarbiana, aveva allestito in un ex ospedale una sorta di polemica controbiennale, con presenza di artisti italiani figurativi ignorati dalla Biennale di Bonami. Come ciliegina sulla torta aveva incluso tra le opere esposte l’ennesimo frutto della creatività di Luigi Serafini, il Carrozzino Extrusco, un po’ quadro, un po’ quadriga, un po’ incubo.
L’happening si svolge a circa 35° col 90% di umidità, e l’organizzazione non ha previsto ventilatori né ha ancora applicato etichette che spieghino al visitatore chi è l’autore di cosa. Nel folle calore che istupidisce gli animi, s’inceppa pure il sofisticato meccanismo elettronico che avrebbe permesso al Carrozzino Extrusco di fare e disfare le corna nel gesto reso noto dalle alte cariche dello Stato, da Leone in su, e di pompare una sorta di globi oculari fuori dai braccini di mostriciattoli che trainano il Carrozzino. A mezzanotte, puntuale come mai, con codazzo di umanità varia come sempre, Sgarbi si materializza tra donne belle e brutte, questuanti, esperti di qualcosa. S’aggira con sguardo tra l’inappagato e il distratto, facendo una specie di trenino con una ragazza e mugugnando frasi che non lasciano presagire nulla di buono. Infine, coram populo, sostiene d’esser lì per quel grande artista del Serafini, per il suo mondo stravolto che combina il parco giochi e i surreali incubi di Alice. Alle altre opere esposte non mostra invece di dedicare così particolari attenzioni.
A quel punto, avendo avuto il privilegio di cenare col suddetto artista, m’inorgoglisco e decido di fare il bis il giorno seguente, sempre nella medesima trattoria da lui caldeggiata. In realtà, per la cena prima dell’inaugurazione, con un Serafini abbacchiato dall’improvvisa panne dei componenti elettronici del Carrozzino, avevo proposto nomi più scontati e roboanti, un Harry’s Bar oppure un Fiore. Mi illudevo di ottimizzare: un ristorante rinomato da recensire per il pubblico danaroso e scaltrito dei lettori del Sole, e una cena di buon livello per l’artista. Che però non sente ragioni e mi introduce al Vecio Fritolin, suo locale del cuore: un’ex friggitoria di pesce, col marmitton e lo scartosso de pesse e polenta da portar via, tradizione conservata dalla patronessa del locale, Irina, così battezzata da padre comunista della Giudecca.
Va detto che il principale interesse dei visitatori della Biennale, intellettuali poco adusi a sport estremi come vagolare in una calura annichilente, si è dimostrato la presenza di impianti di condizionamento: per cui le mostre più visitate sono state quelle climatizzate, al di là della qualità di ciò che esponevano. Tant’è che alla fine – curiosamente – ha vinto un Leone d’Oro il padiglione lussemburghese che esponeva una videoinstallazione intitolata Air conditioned.
Questa premessa allo scopo di rassicurare gli affamati pronti ad attovagliarsi al Vecio Fritolin: il locale è fresco e adeguatamente climatizzato. Non c’è più nemmeno il camino col fuoco sempre acceso per friggere, dal momento che ora la legge proibisce fiamme libere a Venezia. Per cena i clienti sono perlopiù stranieri (tipo Lonely Planet) o italiani forestieri (tipo Gambero Rosso), mentre a pranzo i veneziani colonizzano, e molti se ne stanno semplicemente al bancone a sbevazzare ombre de vin, sgranocchiare fritturina e chiacchierare a più non posso in dialetto. Poiché Irina provvede personalmente alla spesa nel vicino mercato di Rialto, non andate con lo spirito di trovare pesci “annuali”, standard, ma solo il pescato di stagione. Poi, appena presa confidenza con lei, scatenatela alla ricerca di qualcosa cui proprio non vorreste rinunciare. Nel mio caso, dopo aver cenato con canestrelli alla griglia (gustosi parenti poveri delle capesante), seppioline grigliate con quadrotti di polenta bianca abbrustoliti e un indimenticabile scorfano al forno con patate, ho perorato – anche tramite i buoni uffici di Serafini – un pranzo a base di moeche, per il giorno dopo. Era una richiesta difficile, perché la stagione giusta, quella della muta dei granchi, volge al termine, ma Irina ce l’ha fatta. Il giorno dopo, a pranzo, moeche fritte: e, già che c’eravamo, anche un fritto di stagione con gamberetti, seppioline, sogliolette, calamari e codine di rospo; infine, per non lasciare zone d’ombra, baccalà mantecato su crostoni di polenta. Detto questo, però, non ho ancora segnalato la cosa più entusiasmante, il vero motivo per cui non si può mancare una visita al Vecio Fritolin, e cioè la misticanza, un miscuglio stagionale di erbe spontanee e aromatiche. Pare che Venezia sia piena di orti, in particolare quelli delle chiese e quelli delle suore di clausura, che producono cerfoglio, erba cipollina, nepetella, mentuccia, fiori di glicine, aneto… Con questi nomi da erbario del Quattrocento, più che una misticanza la vostra sarà un esperienza mistica. Battuta facile dovuta al gran scorrere di Nosiola.