Verona, “celebre per due amanti lacrimosi tradotti in inglese e per un santo allegro che parla dialetto. Romeo, nel più bello di uno sfogo amoroso non si dimentica di chiedere were shall we dine, dove andremo a pranzo? E se San Zeno ride in fondo alla navata oscura, ride perché ha la pancia gonfia, San Zen che ride e paparele calde, gonfia di tagliatelle calde e gialle, le paparele le ghe vo ben zalde, / e i veronesi, che i sia tuti mati”. Questo per dirvi che si parlerà di un pranzo anche base di tagliatelle, a Verona, “distesa e abbandonata fra l’Adige e il piano, con meandri di strade smarrite che finiscono sempre al fiume, come l’ubriaco che s’imbatte sempre in un albero”. Le citazioni sono tratte da “Il ghiottone errante, viaggio gastronomico attraverso l’Italia” di Paolo Monelli. Il volume è illustrato da tavole di Novello, così spassose che quelle del New Yorker gli fanno un baffo – con rispetto parlando. Il reportage uscì nel ’35, ma è stato appena riedito (Touring Club, euro 14). Bisognerebbe anche citare, visto che siamo in vena di riferimenti gastro-letterari, il celebre “Osteria, Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri” di Hans Barth – con prefazione di Gabriele D’Annunzio – dove l’autore, antesignano di tante guide slow-food, definisce Verona come “la grande osteria dei popoli”.
Questa volta abbiamo deciso di raccontarvi il più classico dei classici ristoranti di Verona, paragonabile per ruolo-guida al Bolognese di Roma o all’ormai tristemente decaduto Savini di Milano. Parliamo del celebre Tre Corone di piazza Bra, in faccia all’Arena, ora ribattezzato “La trattoria di Giovanni Rana”. Il nuovo proprietario, si sa, ha impostato una fenomenale strategia di marketing sulla mitizzazione di se stesso, e non poteva non personalizzare anche un nome così glorioso: perché l’ex Tre Corone è da sempre il ristorante del dopo-opera, e leggenda vuole che proprio lì la Callas abbia conosciuto il futuro – e bistrattato – marito Meneghini. Dirò subito che, benché divertente il gioco di demolire ristoranti famosi, e magari anche aggiungerci il ricco vanesio pastaio di Cologna Veneta, l’ex Tre Corone mi piace moltissimo. E che, anziché peggiorare le cose, la gestione Rana (dal 2002) ha fatto solo bene. Intanto un paio di notazioni architettoniche: siete nel liston di piazza Brà, in quello che a mio avviso è il più bello degli edifici che la incorniciano. E’ il palazzo degli Honorij, progettato attorno al 1550 dall’architetto urbanista Michele Sanmicheli. Bianco, solido, senza fronzoli, con uno splendido porticato a cinque arcate. Dentro, il locale è di un’eleganza rassicurante, solida, da pranzo domenicale borghese. Pavimenti in piastre di marmo a scacchi, splendida boiserie, maestosi lampadari in vetro di Murano, tavoli ampi e distanti. E, una volta tanto, complice il legno, l’acustica è perfetta: anche a locale pieno si mangia senza uscire rintronati, e addirittura senza sapere di cosa abbiano parlato i vicini di tavolo – non solo grazie alla naturale discrezione dei clienti veronesi. Giovanni Rana ha poi voluto dare al ristorante un’impronta pop, ficcando in mezzo alle foto della Callas e a dell’immancabile papa Woytila (che c’è sempre nei ristoranti di livello, mentre Ratzinger per il momento non compare su nessuna parete) alcune sue gigantografie. Una è colorata, sgargiante, mentre tiene le mani in pasta (nidi di tagliatelle); un’altra è un immenso primo piano in bianco e nero, che ti viene d’immaginarlo con sotto un lumino e di dire: “Peccato: era tanto simpatico, poverino”.
Lo chef è cambiato da poco, e mi pare decisamente più bravo del precendente. Il menu è di carne e di pesce, come è giusto sia in un simile locale, senza però essere un’accozzaglia di preparazioni (in tutto cinque antipasti, otto primi, sette secondi).
A parte i dolci complicatissimi, che fanno un po’ copertina di Bargiornale, la cucina è parecchio equilibrata e ci sono alcune cose che se fossi in voi non perderei. Le lasagnette (tagliatelle) “con il ragù di Giovanni”: splendida pasta lieve e soffice, ragù saporito e delicato di carni bianche. La tartare di filetto più impeccabile che abbia visto preparare negli ultimi anni, e un sublime (per cottura e morbidezza) “stinco d’agnello al vino rosso con costine scottadito”. Niente male il “rombo croccante con timballo di alici e catalogna scaltria”, morbido e carnoso, e il carpaccio di branzino con tartare di tonno dell’antipasto. Evitate invece le cose complicate, per esempio i “caserecci di grano saraceno mantecati con carciofi alla romana e gruviera” e il caotico i “filetti di sogliola, pomodoro confit, origano fresco con ragù di raguse e pannocchie di mare”.
Assaggiando un po’ di tutte le portate, e scegliendo un Valpolicella di media fascia, non si spendono più di 60 euro.