“Incubo. Mi siedo a tavola, in trattoria, davanti a una tovaglia macchiata di vino a denominazione incontrollata, di salsa di pomodoro, di ragù alla bolognese, di olio di oliva non extravergine, di aceto non di vino. Un cameriere sudato, con la giacca macchiata, si asciuga la fronte col tovagliolo sporco che tiene abitualmente sotto l’ascella, spazza le briciole più grosse rimaste sul coprimacchia macchiato, con lo stesso tovagliolo finge di togliere il rossetto dall’orlo scheggiato dei bicchieri viola. Nei vasetti di vetro il ‘pepe’ è vecchia polvere, il sale è cementato in blocchi dall’umidità. Nel cestino di plastica il pane non è fresco, ha già assistito a diversi pasti senza prendervi parte: finirà su qualche cotoletta (di manzo) alla milanese. Il tavolo traballa. Le urla dei commensali e il rumore delle posate sui piatti obbligano tutti a parlare a alta voce per farsi sentire. Dalla porta del gabinetto, bene in vista, esce lo scroscio dello sciacquone… La degradazione di solito è totale, arriva all’insegna: il proprietario cancella Osteria, o Trattoria, o Vino e cucina e li sostituisce con Hostaria”. Questa descrizione così spaventosamente vivida è tratta da L’uovo alla kok di Aldo Buzzi (Adelphi), volumetto consigliabile agli amanti delle letture eccentriche, quelle cioè che sembrano parlare di una cosa (qui ricette “alla buona”) e finiscono per parlar d’altro (qui citazioni di altri libri, ricordi, acute e spiritose note di costume).
Chi segue questa rubrica ha senz’altro avuto modo di constatare in quali e quante sgradevoli sorprese possa incappare un povero avventore alle prese con Osterie e Hostarie. Ormai, a livello lessicale, se compariamo alla parola “osteria” o “trattoria” la parola “ristorante” finiamo per convenire che quest’ultima è portatrice di una dose d’enfasi nettamente inferiore, e contiene dunque meno insidie: è, in definitiva, più onesta. Ma questo mese, per fortuna, posso rincuorare chi ancora crede che a un’osteria possa corrispondere un locale accogliente, con cucina casalinga di piatti tradizionali. Un luogo senza tante pretese eppure capace di dare soddisfazioni elementari, semplici – quelle di cui tutti andiamo alla ricerca. Siamo nella bella Verona, in pieno centro, a pochi metri dall’Arena e dal parcheggio più comodo che c’è, quello di piazza Cittadella. Aperta da soli cinque anni, però con tutte le caratteristiche di un’adesione inveterata a tradizioni non corrotte dalle mode, l’Osteria Veneta serve ai suoi avventori pochi piatti di cucina locale, di quelli che sono quasi un archetipo della nostra alimentazione. Gli gnocchi, anzitutto. Serviti burro e salvia, o al ragù o al pomodoro (e la salsa è squisita, delicata con un vago sentore di cipolla soffritta), ecco gli introvabili gnocchi veri: non ingommati dalla farina e dalla conservazione (lo gnocco conservato è disastroso, perde tutta la fragranza), sanno decisamente di patate e hanno una consistenza pastosa e morbida. Ci sono poi i tagliolini con fegatini di pollo, serviti asciutti o in brodo, e gli spaghetti con la granseola – piatto che tra i clienti dell’Osteria mi è sembrato andare per la maggiore. Le porzioni sono calibrate su casi di fame atavica, e servite in piatti ovali così grandi che lì per lì pensavo fossero di portata. In effetti dopo il primo si sarebbe già sazi, ma i secondi vanno almeno assaggiati: io ho provato il bollito (di manzo, testina e cotechino) con mostarda e pearà, tipica salsa veronese a base di midollo, pangrattato, parmigiano, brodo e pepe. Squisito anche il coniglio in umido con polenta, divorato dal mio commensale mentre tra un assaggio e l’altro vedevo volteggiare tra i pochi tavoli un paio di fiorentine dal peso apparente di almeno un paio di chili. Il lettore che mi ha scritto per consigliare una visita all’Osteria (“ci mangio gnocchi degni di quelli che mi preparava la nonna materna e i bolliti più straordinari della mia vita”) segnalava – con ragione – la qualità delle carni scelte dall’oste. Anche i contorni sono tradizionali e ben eseguiti: le erbette saltate, le patate arrosto in padella, i tipici fondi di carciofo alla veneta. L’ambiente è molto illuminato e i pochi tavoli sono ben distanziati, a differenza delle osterie di una volta. Per il resto siamo invece in pieno cliché: la clientela locale e abitudinaria, le scampanellate che richiamano i due camerieri, l’andirivieni di bicchieri di rosso dal banco alla cucina, l’arredo semplice da rigattiere (il grammofono, la macchina da cucire, i tralci di vite in plastica), il servizio volenteroso e alla buona, il detto riportato sulla lista dei vini :“Nel vino c’è la saggezza, nella grappa c’è la forza, nell’acqua ci sono i batteri”. Su un tavolo all’ingresso alcune copie gualcite de L’Arena, il quotidiano della città.
Non abbiamo provato l’antipasto – lardo, soppressa e polenta: sarà per la prossima volta – ma i dolci erano decisamente buoni e mi hanno fatto venire in mente quelli che da adolescente trovavo in casa a ora di merenda: il salame di cioccolato e la focaccia col mascarpone. A voler fare i pignoli si potrebbe segnalare che il sistema di aspirazione della cucina non è dei più efficienti, e che quindi gli abiti, una volta usciti, potrebbero sprigionare gli odori di ciò che avete mangiato.