“Sì, questo sono io e il mio padrone. No, sbagliato, questo è il mio padrone con me. Io cito per primo il mio padrone, e poi tocca a me”. Non è un brano tratto da un romanzo coloniale, ambientato in una piantagione di canna da zucchero con gli schiavi devoti al lavoro sotto il sole. Si tratta invece del finale di Conny’s story, volume illustrato per bambini che, in inglese, racconta le peripezie di un cagnolino nero. Arrivati all’ultima pagina, ecco la sorpresa: il cucciolo, che fin lì era disegnato, ce lo ritroviamo in fotografia, ormai labrador adulto. Con fare leale e sottomesso porge la zampa a questo suo padrone che va citato per primo: Vladimir Putin in persona, con stivali e pantaloni da cavallo.
Possiamo ragionevolmente supporre che l’autrice di questo pregevole libro per l’infanzia, Irina Borisova, avesse uno scopo pedagogico secondario, cioè insegnare qualche parola d’inglese ai bambini russi tramite la storia del cucciolo; e che invece ci fosse uno scopo servile primario: compiacere Putin, padrone del labrador nero Конни, cioè Conny, cagnolone defunto nel 2014 – come riporta al pagina Wikipedia a lui dedicata – e che tante volte abbiamo visto fotografato con l’autocrate russo durante gli incontri con i governanti stranieri, da Bush a Merkel, da Barroso a Berlusconi.
Quel giorno, mentre sfogliavo Conny’s story, mi trovavo in una libreria di Mosca, curiosa di capire cosa leggessero i russi 14 anni dopo la dissoluzione dell’URSS. Era il 2004, durante il primo mandato presidenziale di Putin. “Oddio, ci risiamo col culto della personalità”, avevo pensato arrivando alle ultime due pagine del libro. Anche perché, in quella grande libreria a due passi dalla Piazza Rossa, gli unici gadget acquistabili erano fotografie di Putin già bell’e incorniciate, in pose che vanno dall’assorto con sguardo vago al marziale con colbacco, dal manageriale con telefono in pugno al presidenziale con penna pronta alla firma.
Insomma, quando oggi leggiamo che nelle scuole elementari russe è appena stata inserita una nuova materia, “Educazione patriottica dei cittadini della Federazione Russa”, e che la dura rieducazione dello sventurato Navalny gli impone di fissare per ore il ritratto di Putin, non è che si tratti di una grave deriva nell’indottrinamento del popolo russo. Nel lontano 2004, culto della personalità, atteggiamenti dittatoriali e manipolazione delle menti erano già ampiamente praticati. Del resto, il fondamentale La Russia di Putin di Anna Politkovskaja (Adelphi) è proprio del 2004. Indimenticabile l’incipit del primo capitolo, titolato “Di cosa parla questo libro?”. “Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati. A scanso di equivoci, spiego subito perché tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione”. Due anni dopo la pubblicazione di queste pagine, nel giorno del compleanno di Putin, la coraggiosa e indomita Anna venne assassinata da un killer nell’ascensore di casa.
Torniamo al marzo 2004: dopo aver acquistato Conny’s story per regalarlo a un amico italiano che riteneva Putin un moderno gentiluomo, avevo appuntamento con Ėduard Savenko, in arte Limonov, scrittore ancora pressoché sconosciuto ai lettori italiani. Me lo aveva segnalato un’amica di Mosca, appassionata dei suoi libri e ancor più dell’immagine di sovversivo odiatore di Putin. Andammo a trovarlo nella sede del partito Nazional Bolscevico da lui fondato, una tana sotterranea cui si accedeva da un tombino. Era in liberà vigilata, uscito dalla colonia penale da soli cinque mesi. In precedenza, aveva scontato due anni con l’accusa di traffico d’armi. Suo compagno di lavori forzati era stato il più famoso terrorista-separatista ceceno, Salman Raduyev, poi morto in cella nelle solite circostanze misteriose.
Trovammo Limonov circondato da giovani adepti che avevano tatuata sull’avambraccio una granata (limonka) attraversata da un fulmine. Nel 2011, in Limonov (Adelphi) Emmanuel Carrère definirà questi adepti, ragazzi nati agli sgoccioli del comunismo reale e dunque senza averne ricordi precisi, “i suoi desperados”.
Nel vasto sotterraneo pieno di stanze e corridoi, i manifesti alle pareti dagli slogan belligeranti, le falci e martello, i berretti alla Lenin calcati sulla testa dei desperados, l’aria fumosa, il caos di tubi che correvano sul soffitto, tutto ricordava il set di Storia di Croda, capolavoro dei Gemelli Ruggeri che per fortuna possiamo ancora rivedere su You Tube.
Parlammo a lungo di Putin. Per Limonov, il presidente era il prototipo dell’abiezione. Dovete procurarvi uno dei libri in cui più splende la sua crittura incendiaria, Russian Attak (Salani), che contiene anche racconti di Viktor Erofeev e Vladimir Sorokin, pure grandi oppositori di Putin sin dalla prima ora. Nella raccolta, tra i testi di Limonov, oltre a uno sconcio, esilarante racconto autobiografico ambientato a Parigi, c’è un implacabile j’accuse, Estraneo e Malvagio (scritto nel 2000). È una fenomenologia di Putin in cui Limonov si esercita con accanimento per demolirlo da ogni punto di vista: fisico, del gusto, delle attitudini e delle scelte lessicali, persino della moglie e delle capacità paterne. Putin fa rimpiangere Eltsin: “Anche se Eltsin verrà sempre associato dalla storia alla schiera dei cattivi capi del popolo, aveva comunque un carattere ben riconoscibile, di chiara derivazione popolare. Il suo comportamento da ubriaco fuori di testa, il suo dispotismo incontrollabile, visti col senno del poi non erano privi di un certo fascino. Talvolta si sente la mancanza della sua presenza malefica nell’ambiente asettico del governo di Putin, che non rappresenta nessuno degli archetipi popolari a noi conosciuti”. E più avanti: “Il valore principale di Putin consiste nella sua capacità esecutiva di burocrate. In Russia, Paese pieno di gente disorganizzata, impulsiva e inaffidabile, i burocrati sono una ricchezza: tipi così, con le cartelline, bisogna tenerseli stretti. In più Putin, che non beveva, non fumava e non amava fare la sauna in compagnia di maschi ‘alcolicizzati’, e in mezzo ad una folla di dirigenti rotti a qualsiasi vizio doveva apparire come una specie di superuomo”.
Con la sua scrittura ritmata, secca, irritante, nemica di ogni forma di pietà umana e di ogni pensiero beneducato, lo scrittore finiva per prevedere la guerra contro l’Ucraina. Va ricordato che Limonov era cresciuto a Kharkiv (in ucraino, o Char’kov secondo la traslitterazione dal russo), ex capitale prima di Kiev, oggi città trincea flagellata dai missili.
In La Tana e la Patria, sempre parte di Russian Attack, sono fantastiche le descrizioni che Limonov fa del paesaggio russo, per dimostrarne le relative conseguenze sull’animo degli abitanti. Secondo lo scrittore, i russi sono gravati da una natura smidollata, ragion per cui subiscono Putin senza batter ciglio. Questa debolezza della spina dorsale ha una causa: “La Russia è innanzi tutto un inverno in bianco e nero, una distesa bianca su cui, come semi di papavero su una ciambella, sono sparsi gruppetti di alberi morti per nove mesi all’anno. Una superficie bianca attraversata dai fili scuri delle strade come raschiature di un’unghia su un vetro ghiacciato. I nostri figli vengono concepiti nel clima artificiale degli appartamenti. Come in un’incubatrice si gonfiano in fretta, lievitano a vista d’occhio accanto a termosifoni bollenti”. Non basta: “La Russia è in primo luogo i quartieri dormitorio delle grandi città. Il fatto è che l’uomo non è nato per vivere a queste latitudini nevose. Ha fatto male a stabilircisi, si è spinto troppo nord, troppo lontano. Di qui la presenza dell’artificiale, dell’anormale nella psicologia russa. Siamo incubati, artefatti molto prima dell’avvento della clonazione. Coloro che sono stati cresciuti entro quattro mura non hanno il senso dello spazio. Non hanno un concetto carnale di Patria”. Limonov vuole dimostrare che i russi, crescendo stipati in appartamenti tutti uguali, straniati dalla concretezza del paesaggio come polli in batteria, non sviluppano alcun attaccamento alla patria e non sono dunque in grado di amarla e difenderla. Da qui la superiorità morale di moldavi, ceceni, ucraini. Non altrettanto rovinosamente inurbati, essi provano una sensazione di possesso del paesaggio che non è astrazione ed è piuttosto orto dove crescono fiori e patate, casa costruita con le proprie mani, bosco per farci la legna e raccogliere i funghi, fiume in cui pescare. In Russian Psyco, Limonov passa poi a una strampalata ma affascinante riscrittura della storia dell’uomo. Le più antiche tribù di umanidi si affrontarono in “una guerra generalizzata e reciproca su centinaia di fronti” per accaparrarsi le regioni centrali “fra il 30° e il 50° grado di latitudine nord, dove, in presenza di un clima temperato né torrido né glaciale, è stata creata la maggior parte dei capolavori della cultura umana. Ad altri restarono il caldo malsano, infuocato dell’equatore o il gelo del nord. Quando le tribù andavano a rifugiarsi nei boschi e nelle paludi del nord non lo facevano di loro spontanea volontà, ma ritirandosi sotto l’impeto dei nemici. Per salvarsi, essendo più deboli dei nemici. E coloro che andavano a rifugiarsi nell’orribile tundra del nord per salvarsi a loro volta dalle tribù dei boschi erano i più deboli di tutti”. Quindi, i perdenti, gli incapaci di farsi valere in guerra, secondo Limonov sono quelli finiti in Russia. I progenitori dei contemporanei erano stati inabili a conquistarsi un posto al sole. A forza di perdere ogni battaglia, erano stati sospinti verso le plaghe più inospitali del mondo. Sulla psiche di quelle stirpi già di per sé neglette, aveva poi agito il paesaggio nebbioso, paludoso, grigiastro e mortalmente freddo. Ed eccoci ai contemporanei: la somma del fiacco DNA originale, combinato al clima ostile e alla mancanza di luce, li ha resi un popolo di individui definitivamente piagnucolosi, cupi, crepuscolari. “I russi non sono mai stati Europa”, conclude esaltando invece i caratteri più grintosi di ucraini, tzigani e tatari. Se fosse ancora vivo, lo vedremmo belligerante a sostenere il patriottico popolo ucraino contro gli smidollati ragazzini arruolati dal malefico Putin.
C’è un curioso e stravagante libretto di Patrik Ourednik, Europeana – Breve storia del XX secolo (Quodlibet), che nel miscelare le tragiche, a volte involontariamente comiche vicende dell’ultimo secolo racconta anche cosa è successo all’Ucraina ai tempi dell’URSS. L’autore, un redattore di enciclopedie, crea una miscellanea di notizie alte e basse, tragiche e assurde. Tra queste, sono ben rappresentate le follie della rivoluzione sovietica. Come molti di voi sapranno, a un certo punto i comunisti decisero che per fiaccare l’animo poco collettivista dei contadini ucraini, dei caucasici e dei kazachi, non restava che provocare una carestia. Così fecero deviare il traffico ferroviario, bloccarono le strade, chiusero d’imperio negozi e mercati “e sei milioni di persone morirono di fame. E c’era chi nascondeva i cadaveri dei parenti per venderli ai vicini o al mercato nero e con il ricavato comprare cadaveri di sconosciuti perché non voleva mangiare la carne di qualcuno con cui magari aveva diviso dei bei momenti”. Tra le ripetute spietatezze sovietiche esercitate sui poveri ucraini, non vanno dimenticati i duecentomila cittadini di etnia tatara che nel 1944 vennero fatti fucilare da Stalin o, in alternativa, furono deportati dall’Ucraina nelle lontane regioni “stan”, cioè Uzbekistan, Kazakistan, Tagikistan. Stalin russificò le strade facendo cancellare i nomi tatari, fece abbattere i loro monumenti e arare i cimiteri dove i loro morti erano seppelliti ma, nonostante questo tentativo di cancellare la memoria dei luoghi e delle persone, pian piano i superstiti tornarono in Ucraina, soprattutto in Crimea e nelle zone a est del Paese. Nel romanzo autobiografico Eddy-baby ti amo (Salani), Limonov racconta la sua adolescenza a Char’kov alla fine degli anni Cinquanta, in piena epoca chruščeviana. Nelle periferie della città, ubriacandosi, prevaricando, rubando, sfidandosi crescono adolescenti di origine russa, ucraina, ebrea, georgiana, tzigana e, appunto, tatara. Questi ultimi sono molto ammirati dal giovane Eddy per via del vitalismo e della somma arte di arrangiarsi. Sono i figli di deportati negli “stan” che ce l’hanno fatta a tornare a casa. Destino infame il loro. Oggi Putin considera questi tatari di religione blandamente musulmana-sunnita alla stregua di jihadisti infrattati tra i presunti nazisti ucraini, dato che i tatari non hanno mai riconosciuto l’annessione russa della Crimea. Spediti in carcere o nei gulag, sperano che la Corte penale dell’Aja prima o poi si dedichi alla valutazione del memorandum di 175mila pagine in cui sono denunciati i casi di discriminazione razziale subiti dalla loro minoranza.