Camilla Baresani

Sommario

Da Miami a Palm Beach una sola ossessione: la longevity

- Il Foglio - Storie

Camminata veloce. Spinning. Meditazione due volte al dì. Yoga. Pilates. Golf. Danza hip hop. Pesi. Microdosing di funghetti durante sessioni trisettimanali di massaggio o fisioterapia. Ozempic. Melatonina. Omega 3. Filler all’acido ialuronico. Botox. Trasfusioni di cellule staminali (Stem cell therapy). Bene. Riempitevi la vita di tutte queste occupazioni e trattamenti, pensate pervicacemente a voi stessi, dedicatevi alla vostra longevity, fate scintillare i denti rivestiti con faccette in ceramica o zirconio, tonificate i muscoli, stimolate i processi biologici. E, se leggete, leggete dépliant informativi di cliniche di medicina estetica, di ambulatori dove si praticano terapie che promettono salti all’indietro nell’età della pelle, delle ossa, del sistema immunitario.

Comprate poi a man bassa vestiti Dior, Balenciaga, Jil Sander, Bottega Veneta che si possono lavare solo in lavanderie dai costi proibitivi, e che userete nelle uscite serali, dato che di giorno state con i leggings e la maglietta e le Asics gel ammortizzate perché i vostri calcagni, giunture, cartilagini non si danneggino. Al coniuge che gestisce il patrimonio su cui campate, marito o moglie che sia, lasciate la lettura del Financial Times e le consultazioni con commercialisti, avvocati, banchieri sulle migliori tecniche di elusione fiscale. Con questo coniuge condividete però tutte le più avanzate pratiche di turbo-longevity. Abbiate un cagnetto da braccio, un cosino peloso che, ai primi segni di sua stanchezza o invecchiamento, porterete a spasso nel passeggino.  

E ancora: imbottitevi di avocado e di carne wagyu A5, il nuovo caviale. Abbiate il ripiano dell’ampia cucina con isola pluriaccessoriata cosparso di flaconi di integratori; cucina di cui usate solo frigo e microonde perché comprate cibo pronto, e verdure e frutta già puliti e porzionati. 

Siate trumpiani ma affermatelo solo con persone che conoscete da anni, del vostro inner circle. Per il resto fate i vaghi, è sempre meglio non sbilanciarsi. Affermate però che Biden oltre che rimbambito è manifestamente corrotto, perché di sicuro la talpa che ha accusato lui e il disastroso figlio Hunter di essersi beccati 10milioni dalla compagnia ucraina del gas non mentiva. Anche se siete ebrei, evitate di esprimervi su Gaza. Quando un estraneo cerca di cavarvi un’opinione cambiate argomento, introducete piuttosto il tema delle vostre future vacanze a Capri. 

A questo punto l’avrete capito, la descrizione corrisponde al perfetto residente di South Beach, Miami, Florida. Aggiungiamo: vantate i risultati di Ron DeSantis, che ha reso Miami un posto pulito, sicuro, “dove non ci sono gli homeless” (ma noi li abbiamo visti, non accumulati in centro città, come in California, però attendati sotto le volute degli svincoli sopraelevati, nei quartieri dove i residenti delle isole di Miami Beach passano solo per andare all’aeroporto o da Cipriani: Downtown e Overtown).

Miami, 470mila abitanti (ma più di 6 milioni nell’area urbana), 72% per cento di ispanici,13 di afroamericani, 12 di bianchi non ispanici. A Miami Beach, le percentuali cambiano. Su 80mila abitanti, i bianchi non ispanici sono il 35%, i neri meno del 4, tutto il resto ispanici. Per finire i conti: ci sono circa 123 mila ebrei, di cui 15mila a Miami Beach.

Da settembre 2023, il nuovo regolamento urbano ha stabilito che gli homeless, se non rispettano il “divieto di campeggio e bivacco”, vanno arrestati o, in alternativa, devono accettare di essere trasferiti in un ricovero, o anche salire su un autobus (con biglietto omaggio) che li rispedisca nel luogo da cui provengono. Di fatto, la Florida è il terzo stato americano per numero di senzatetto, dopo California e New York, cioè le zone degli Stati Uniti con i valori immobiliari più alti.

Se avete visto Griselda, la serie biopic sulla narcotrafficante colombiana che mette a ferro e fuoco Miami commissionando centinaia di omicidi, be’, non c’è più il mondo del cartello di Medellin che spadroneggia, e nemmeno quello raccontato da De Palma in Scarface: niente smitragliate e regolamenti di conti, la “cocaine cowboy era” è il passato e, forse, i grandi affari ora non si fanno più con la droga ma con le cliniche per ricchi e soprattutto con l’edilizia. 

Tra i multimilionari e i billionari di South Beach, che siano russi, americani canadesi, argentini, venezuelani, italiani, i temi del gender non sono dibattuti. Sono cose da svitati californiani o da liberal newyorchesi. Piuttosto, in spiaggia, in piscina, al lunch si parla per ore di consumi: cosmetici prodigiosi, brand, fisioterapisti, dermatologi, e anche arte. Non perché se ne sia cultori, ma perché si è diventati soci sostenitori del museo Pérez o del Rubell, che conducono gli associati in sontuose gite per visitare collezioni private, magari a Città del Messico, o a Istanbul. Così, passo dopo passo, guardando le opere e giudicandole in base al criterio “me lo metterei sopra il divano oppure no” ci si percepisce esperti d’arte. L’arte, dunque, come lasciapassare sociale e come argomento di conversazione balneare e stimolo alla visita in quanto volta all’acquisto. Si arredano i salotti, si riempiono le mensole vuote, dato che nelle case, di libri, non se ne vede neppure uno.

Nessuno parla di politica, di quello che succede nei paesi da cui si proviene e dove magari, nel caso di russi e venezuelani, si sono lasciati capitali a rischio di sequestro, ma non si può tornare altrimenti si rischia l’arresto. Si evita di raccontare, di giudicare, di analizzare. Ognuno ha delle prudenze perché non si sa mai come possano volgere le situazioni, le leggi, i privilegi, le sfighe. 

Un’amica russa, che ci ha introdotti nel mondo dei più lussuosi condomini di South Beach, il Continuum e l’Apogee, definisce le belle donne che ci circondano, mogli e compagne delle più svariate nazionalità, “le consumatrici”. Terminati i fasti della settimana di Art Basel, con i compratori di opere che arrivano dall’America Latina carichi di contante, e con gli europei perlopiù spesati dal giro della moda e della pubblicità, restano i residenti, questa categoria mezzo apolide mezzo pensionata, chi con dei guai nel paese d’origine, chi semplicemente intenzionato a godersi spensieratamente i capitali accumulati. Un gruppetto di consumatrici d’origine mista, una libanese, una canadese, un paio di russe newyorchesi, persino un’ucraina, progetta una vacanza senza mariti. Vogliono andare in Italia, dove non sono mai state. Firenze? Roma? Venezia? Macché. Sono attratte da Fiuggi, dove pare ci sia una raffinata spa specializzata in trattamenti ayurvedici. È davvero un mondo al contrario, altro che quello denunciato dal Vannacci. Qui, la persona più deprecata è Carolina di Monaco, per via della manutenzione ritenuta insufficiente. Non essere lisci e tinteggiati è considerato una sciatteria, respingente come aggirarsi con l’alitosi. 

Da Cipriani Downtown, dove prima o poi finiscono tutti, c’è l’insopportabile musica zumpappà degli Abba. Ordini il vino al bicchiere che costa meno, un Grignolino qualsiasi da 25 dollari, e arriva il cameriere sbatacchiando il bicchiere che tiene in mano, col vino già versato. Qualcuno sceglie dei “bucatini all’amatriciana bianca” e li fa assaggiare: un intruglio di cipolla e bacon, mantecato con presunto parmigiano. Camerieri vagano cercando di rifilarti una tazzina di caffè ordinata da chissà chi, ma tu stai aspettando i tagliolini gratinati.

Non essendoci granché da visitare, a parte i musei di arte contemporanea dove Yayoi Kusama è onnipresente, è uso comune fare il tour degli alberghi, delle hall e relative zone piscina. Il Four Seasons, il Setai, il Faena con lo scheletro di mammut dorato sotto teca by Damien Hirst, che rifulge al sole mentre tutti cercano la luce migliore per farsi la foto da instagrammare. E poi il Nacional, il Nautilus, il Fontainebleau. Dilaga Peter Marino, l’architetto che iniziò lavorando per Warhol, e poi gli Agnelli, e poi chiunque fosse famoso. Alberghi e negozi: il suo nome è sui cartelloni di molti cantieri. 

Nel campo degli arredatori d’interni per appartamenti di milionari, considerevole successo lo ottiene un certo Henry Timi che, a detta di un ex costruttore russo, è “il più famoso designer di Milano”. Colpevolmente, non l’avevamo mai sentito nominare. Ma il vero italiano di successo nel campo immobiliare è Ugo Colombo, sessantenne pioniere dell’edilizia gigantista di Miami, amico di Maurizio Raggio che vive con la moglie messicana in uno dei suoi palazzi nel quartiere di Brickell. Si dice che Raggio abbia comprato l’ultimo terreno disponibile a Portofino per farci garage adatti alle dimensioni delle supercar, da vendere a 300 mila euro. Anche Gianluca Vacchi vive buona parte dell’anno a Miami. Chi lo frequenta riferisce che con lui si parla solo di longevity. 

Chi sono gli scrittori che hanno raccontato Miami? Ernst Hemingway ci ha abitato brevemente nel 1960, mentre negli anni Trenta aveva vissuto nella bella villa coloniale di Key West, dove ora risiede un’immensa colonia di gatti discendenti dei gatti dello scrittore. Tuttavia, Miami non l’ha ispirato come luogo per ambientarvi scene romanzesche. Saltiamo allora a Joan Didion, che arriva a Miami il 17 aprile 1985. Le interessa la comunità cubana e sceglie il giorno del ventiquattresimo anniversario della fallimentare invasione della Baia dei Porci. Per spiegare la storia della città e degli esuli cubani, comporrà un reportage eccellente nello stile del new journalism, partendo dalle lapidi del cimitero di Woodlawn Park. A poca distanza l’uno dall’altro sono sepolti il presidente-dittatore Gerardo Machado (morto nel ’35) e un presidente successivo, Carlos Prio Socarràs, che era stato tra gli attivisti che avevano cacciato Machado, e che fu a sua volta cacciato dal golpe del generale Fulgencio Batista, poi rovesciato da Fidel Castro, e la cui figlia Carmela Batista nel 2017 è finita tra i senzatetto di Fort Lauderdale.  

Tuttavia, per arrivare al romanzo di Miami bisogna aspettare Tom Wolfe, “il Balzac di Park Avenue”. Dopo la Manhattan di Il falò delle vanità, dopo l’Atlanta di Un uomo vero, ecco nel 2012 Le ragioni del sangue. “A New York è solo una questione di soldi, a Washington di potere, a LA tutto gira intorno alla fama, a Miami è il sesso” ha dichiarato Wolfe all’uscita del libro. “Classe, famiglia, sesso, corruzione, ambizioni a Miami, la città dove il futuro è arrivato prima che altrove”, è lo strillo scelto per il lancio. Neri, cubani, russi, haitiani, gringos, creoli. Tutti in conflitto, tutti assatanati di sesso, truffatori, arrampicatori sociali, con un’iperdescrittività che elenca droghe, architetture, barche, auto, merci. Insomma, la tipica prosa di Wolfe, con i suoi stilemi e i suoi parossismi per i quali le atmosfere tropicaldissolute di Miami sono il fondale perfetto.

Benché parta da Fort Lauderdale anziché da Miami, c’è poi l’imperdibile David Forster Wallace di Una cosa divertente che non farò mai più. “Dall’11 al 18 marzo 1995 io, volontariamente e dietro compenso, mi sono sottoposto alla crociera 7 Notti ai Caraibi (7NC) a bordo della Zenith 3, una nave da 47.255 tonnellate, di proprietà della Celebrity Crociere, una delle oltre venti compagnie di crociera che attualmente operano fra la Florida e i Caraibi”. E poco più avanti: “Ci sono parecchie persone anziane e viaggiano tutte con persone disperatamente anziane che, è chiaro, sono i genitori delle persone anziane”. Le navi da crociera sono parte integrante della vita di Miami. Dal porto, ogni fine settimana salpano decine di questi colossi. Attraversano il canale che passa accanto a South Beach emettendo il consueto lungo muggito di saluto che riverbera fin dentro ai piani alti dei condomini, sul chilometrico spiaggione bianco, tra coloro che gozzovigliano lungo Ocean Drive e si fanno i selfie davanti a Casa Casuarina, che fu la villa di Versace e ora è un albergo. “In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano – io mi sentivo disperato”.

Con i suoi traffici segreti sotto cieli tropicali, con le Lamborghini, le Ferrari, le McLaren, che ti chiedi perché se le comprino dato che ci sono ovunque rispettatissimi limiti di velocità, a volte addirittura di 5 miglia, Miami più che appartenere alla letteratura è consegnata ai set per il cinema e le serie televisive. A qualcuno piace caldoAce VenturaScarface, oltreché, sul versante italiano, il cinepanettone pecoreccio Natale a Miami, e un Vanzina tra i meno riusciti, Miami Beach. Ma l’epica la costruiscono le serie televisive, tra paludi coccodrillifere, pellicani famelici, distese di mangrovie, traffici di droga, ammazzamenti anche fantasiosi: Miami ViceBlood lineDexter, oltre al succitato Griselda.

Federica Balestrieri, ex giornalista del TG1, che ha mollato l’Italia per trasferirsi con il marito a Miami, è una delle poche italiane che lavorano, pur non facendo né la cameriera né la cuoca. Si è inventata una linea di abbigliamento etnico, Dress more with less, che commercializza principalmente su Instagram. Dato che l’ossessione per la longevity produce anche cose buone, che speriamo si ripercuotano da Miami fino a noi, stretti tra le polveri sottili della pianura padana e la spazzatura romana, Federica ci introduce al professor Camillo Ricordi, erede della prestigiosa dinastia discografica, direttore del Diabetes Research Institute e del Cell Transplantation Center di Miami, scienziato del trapianto di cellule insulari, che ha dato una svolta alla sua specializzazione buttandosi sulla longevity. Anzi, come ci spiega, bisogna dire “vita sana” o Healtspan, che è poi titolo del suo libro (in edizione italiana, Il codice della longevità sana) e il nome del suo protocollo di salute. Caso strano, in quella Miami dove nessuno ti guarda in faccia se non hai la carta di credito pronta al contactless, Ricordi dispensa volentieri consigli senza fatturazione. Punto di riferimento della folta comunità italiana, medico delle celebrities dell’ugola come da DNA di famiglia, pare che addirittura ami cucinare e invitare a cena (anomalia). Ma si guadagna con la longevity?, gli chiediamo nel suo ufficio al Jackson Memorial Hospital, unico luogo della città dove finalmente abbiamo trovato spenta la raggelante aria condizionata. “Il grande problema è che l’industria della medicina e della farmaceutica guadagnano sui malati, sulla cura, e non sulla prevenzione, che è poco remunerativa. I poveri non se la possono permettere, e i ricchi sono più redditizi quando entrano in interminabili cicli di cura”. Ma lei cosa ne dice di questa Stem cell therapy che qui va per la maggiore, praticata persino in centri estetici, e che alcuni vanno a fare addirittura in una meno costosa clinica di Tijuana? “Al Jackson nascono 11 mila bambini all’anno. Ogni cordone ombelicale cura 20mila persone, restaurando processi che durante la vita si corrompono. Le infusioni di staminali possono essere utilissime, ma anzitutto vanno fatte solo in un grande ospedale come questo. Però non ci sono studi a dieci anni. Mettiamo che nel futuro si abbia bisogno di un trapianto. E se la stem cell theraphy avesse provocato un’allergia con conseguente rigetto? E se facesse venire il cancro?”. Che sollievo quando ci dicono che trattamenti costosissimi e alla moda possono essere dannosi. Ad ogni modo, questa ed altre appassionanti dissertazioni potrete ascoltarle dal vivo, perché Camillo Ricordi sarà al Milan Longevity Summit che tra il 14 e il 27 marzo porterà in città 70 scienziati pronti ad analizzare tutti i temi dell’invecchiamento, compresi quelli dei servizi e dell’edilizia.

Palm Beach, PB per tutti, è un’altra storia. Fondata nel 1871 dal milionario della Standard Oil Henry Flage, piccola rispetto al gigantismo di Miami, ha una reputazione old money e dunque meno cafona, per lo meno nell’accezione americana. Proprio come Miami è divisa tra West PB, la parte continentale business e non turistica, e la parte “mar-a-lago”, ossia la lunga striscia insulare che affaccia sulla baia interna (lago) e sull’Atlantico. West Palm Beach, 120mila abitanti per un terzo bianchi, un terzo ispanici, un terzo neri, venne fondata come zona di servizio, dove abitavano i lavoratori. Oggi è costruita in stile Miami, con la verticalizzazione dei palazzoni e le decine di cantieri in corso per realizzarne di nuovi, le facciate dei condomini più lussuosi nello stile dominante delle zahahadihate curvacee. C’è anche la stazione della linea ferroviaria Miami-Orlando con i bagni ultratecnologici e i rubinetti Dyson che emettono sapone, acqua tiepida e getto d’aria asciugante. A West Palm Beach si trova il museo più bello della Florida, il Norton. Diversamente da quelli di Miami, il Norton ha un’ampiezza di collezioni che non tocca solo il contemporaneo. Evidentemente le acquisizioni sono iniziate almeno 50 anni prima che nei musei di Miami. 

Attraversata la baia si arriva a PB, 9 mila abitanti, che sono bianchi per più del 90%. Qui la verticalizzazione non è contemplata. E quindi ville prestigiose ed eleganti sulla baia. Una passeggiata pedonale le divide dai pontili per l’ormeggio delle barche, con accesso privato tramite cancelletto a combinazione. Dal lato dell’Atlantico, invece, ville più nuove o quantomeno pesantemente ritoccate in stile palladiano, neogotico, beaux arts, coloniale, barocco, eclettico, modernista, castello in Baviera. Un bailamme di forme imitate o inventate. La villa anni Cinquanta di Jeffrey Epstein è stata comprata da un immobiliarista, demolita e ricostruita. Palingenesi.

Scegliamo due ciceroni immaginari: una professionista dello sciurismo locale e un entomologo della ricchezza. Suebelle è un’influencer, la trovate su tutti i social. Ex alcolista sobria da decenni ma con la voce raucocaliente di chi ci ha dato dentro, origini texane, un passato molto remoto da Playboy bunny al Boston Playboy club, e un fondamentale e perdurante matrimonio con un ormai pensionato agente di borsa bostoniano, Richard Robbins. Molto riplasmata, il volto senza nemmeno un’increspatura ma le gambe maculate e con pelle scabbiosa tipica quantomeno dei 70 avanzati, sommersa da consistenti strati di make up e lacche, dall’alto della sua indefinibile datazione dispensa consigli di eleganza e di vita nei luoghi topici dello shopping e dei lunch mondani di Palm Beach. Suebelle è in prima linea tra le Trumpettes, signore generalmente ben sposate ossessionate dal MAGA, Make America Great Again. Non mancano nel profilo di Suebelle le foto cheek to cheek con Trump, in un party a Mar-a-Lago, e anche col povero Giuliani, ormai ricordato solo per il rigagnolo di tintura sulla guancia. Queste Trumpettes e altre signore più discrete, spendono le loro giornate tra il ristorante del Colony hotel, invaso a bordo piscina da una puzzolente nebbia bistecchiera (sarà senz’altro wagyu), oppure accomodate al Sant Ambroeus, o anche intente allo shopping lungo la Worth Avenue. Ben lontano dallo stile fitness di giorno e modaiolo trendy di sera della più vivace Miami, a PB ci si impupazza anche per il lunch. Lo stile dominante è quello di Melania Trump. Vanno moltissimo Dolce&Gabbana, Oscar de la Renta, Hermès. 

L’altro Cicerone che con le sue pagine ci ha guidato nei meandri di Palm Beach è Michael Gross, il cantore dei ricchi tra Manhattan, gli Hamptons e appunto PB. Giornalista in gioventù volto al rock, ma presto dirottato alla moda e all’immobiliare, è autore di Flight of the Wasp (Il volo delle vespe/wasp), Ascesa, caduta e futuro della vecchia classe dirigente americana, in cui “esplora la cultura d’élite nel suo microcosmo” e in pratica ci fa vedere come ormai anche a PB ci siano solo neoriccastri. La vecchia guardia non prospera più sugli hedge fund, sull’infotainment, sui soldi del tech. Si è rifatta un po’ di liquidità vendendo ai nuovi ricchi gli appartamenti di Park Avenue, le mansion di Palm Beach, i terreni sui monti Adirondack e i cottage rivestiti di scandole sulle spiagge del Connecticut. 

Immancabile, nei negozi e nelle case il librone patinato di Assouline dedicato a PB. Chi c’è c’è, e chi non è finito nelle fotografie di questo volume capitale non riesce a farsene una ragione e rosica da anni. Inizia con la citazione di un articolo di Cecil Beaton pubblicato a suo tempo da Vogue: “Tennis, nuoto, pranzo. Golf, drink, cena. The Patio. Bradley’s. A letto. Tennis, nuoto, pranzo. Golf, drink, cena.  Film. The Colony. Bradley’s. A letto. Tennis, nuoto, pranzo. Pesca, drink, cena. Eccetera”. 

Dal Colony, dove abbiamo dialogato con delle affabili newyorchesi dall’età indefinibile, terrorizzate dagli homeless e dai pullman texani che scaricano migranti, e che dunque preferiscono svernare nelle loro ville di PB, ci siamo diretti per un tentativo disperato verso l’inaccessibile tenuta trumpiana. Si sperava nel colpo di fortuna della vita, tipo incontrare sull’ingresso un dimenticato compagno delle medie che da Brescia si è trasferito e ora fa l’istruttore di tennis a Mar-a-Lago e ci fa entrare. Ci siamo dunque messi in cammino, percorrendo i 4 km di distanza lungo Ocean Boulevard. La scoperta è che non esiste un marciapiede (né una corsia d’emergenza o un’area di sosta per le auto), e non è insomma contemplato che qualcuno metta piede fuori dalla macchina e passeggi a bordo mare, probabilmente perché i proprietari delle ville non vogliono sguardi dei passanti. Sentendoci colpevoli, abbiamo dunque camminato lungo l’asfalto, sfiorati dalle fuoriserie, calpestando brevi tratti di bordure pertinenti alle ville: alla nostra destra le villone in stile e invece a sinistra un muro quasi scavalcabile, inframmezzato di cancelli con combinazione che permettono l’accesso alla spiaggia oceanica, privatizzata per chilometri dai proprietari delle ville antistanti. Laddove l’ampiezza della spiaggia lo permette, alcune ville hanno anche una sorta di beach club, con o senza piscina, sdraio, ciotole per cani, e piccoli padiglioni. Ed eccoci finalmente all’ampio portone serrato di Mar-a-lago, e poi sempre girando intorno per altri chilometri, troviamo l’ingresso principale, da cui si possono veder garrire le bandiere americane. Ma l’entrata è protetta da camionette militari, con soldati armati che ingiungono di non sostare sullo spiazzo antistante. Nessun ipotetico compagno delle medie esce, ci riconosce, gli diciamo “Come sei cresciuto! Che ci fai qui?”, e risponde “Sono uno stimato maestro di tennis, per favore entrate”. E insomma, non resta che chiamare un Uber, senza convocarlo sul piazzale ché si rischia il colpo di mitraglietta bensì dall’altro lato della strada, nel parcheggio della forza lavoro di Mar-a-Lago.