Siamo tutti frastornati. Per alcuni di noi, sono stati mesi di forzata “vacanza Covid-19” e poi mesi di leggerezza estiva. Per molti altri, sono stati mesi di lavoro ininterrotto e massacrante e di paura del contagio. Per altri ancora, c’è stata la malattia oppure il crollo dei sogni imprenditoriali. Provenivamo da un lungo periodo di crisi e di perplessità in cui ci eravamo chiesti quanto le manovre dei singoli governi potessero incidere sull’economia globalizzata del terzo millennio. Dopo il Novecento, secolo di totalitarismi ma anche di rivoluzioni sociali all’insegna del sindacalismo e dei diritti dei lavoratori, il Duemila sembrava nato nel “di doman non v’è certezza”, proprio come nel canto carnascialesco di Lorenzo de’ Medici ma senza alcuna contingente sensazione di giovinezza gioiosa. Per sostenere lo stato sociale, i governi sono ricorsi a una tassazione massacrante. È diventato sempre più difficile accedere a un lavoro adeguato alle aspettative, e quando lo si trova è concettualmente precario perché ormai sappiamo che nuove anonime proprietà di vecchie aziende dislocano le produzioni, il lavoro viene esternalizzato a cottimisti malpagati e senza garanzie, e per giunta cambiano vertiginosamente mode e consumi facendo precipitare le imprese di chi, su quelle mode e su quei consumi, aveva investito creando posti di lavoro.
L’incertezza della pandemia si assomma all’incertezza della globalizzazione e sembra avvisarci che, come i generi sessuali e il concetto di bellezza sono diventati fluidi, così dobbiamo diventare fluidi anche nel lavoro, sempre pronti a trasformarci, perché laddove si chiude una porta potrebbe aprirsene un’altra.
È necessario diventare avventurosi esploratori non di foreste pluviali e di crepacci inesplorati bensì del mondo del lavoro. Oggi siamo giornalisti e domani coltivatori di mele trentine, oggi siamo dentisti e domani gestori di un negozio di sigarette elettroniche, oggi siamo cameriera in un bar e domani influencer di mixology. E la mutazione di pelle non sarà una sola, bensì un susseguirsi ininterrotto in cui dovremo abbandonare l’idea delle case di proprietà che ci vincolano ad abitare in un luogo definito. Perderemo quelle care vecchie abitudini molto italiane di radicamento, in favore di una concezione avventurosa del nostro domani, alla Jack London.
Affrontando il problema in modo concettuale si potrebbe dire che, giustamente, amiamo l’idea di realizzarci per accedere ai beni di consumo (Roberto Cavalli, in un’intervista del 2015: “Ai miei figli ho insegnato il trittico: lavorare, guadagnare e spendere”). Tuttavia, secondo la teoria mimetica del desiderio di René Girard, le nostre aspirazioni non hanno un tracciato binario (ossia da noi all’oggetto del desiderio) ma triangolare. Desideriamo qualcosa perché lo possiede o lo desidera qualcuno che vogliamo imitare, dato che in realtà siamo attratti dallo spettacolo del desiderio della persona che ammiriamo: “Ogni desiderio è desiderio d’essere”, è cioè un desiderio mimetico. Se dunque il nostro canone esistenziale è agganciato al modello di una vita statica e garantita, e quella vita ormai produce non benessere ma frustrazione, significa che dobbiamo cambiare modello mimetico: non è l’esistenza dei nostri genitori e nonni che dobbiamo imitare per accedere a quello che hanno potuto guadagnare e spendere. I genitori e la scuola devono raccontare (e magari impersonare) la fluidità esistenziale invece di rimpiangere sicurezze ormai insostenibili. Per scendere a livelli più concreti, la fragilità della nostra condizione va accolta, data per scontata e interpretata in modo vincente, come capacità di reinventarsi nel lavoro. Nel secolo dell’incertezza, il desiderio mimetico del canone italiano deve per forza essere innovato. L’Altro, colui che prendiamo come modello e che imprime valore alle cose che desideriamo, deve essere incarnato da figure meno familiari, più fluide, inventive, plasmabili.