Camilla Baresani

Sommario

Il Chelsea Flower Show è molto sostenibile (ma fa rimpiangere Milano)

- Il Foglio - Storie

Qual è la più nobile tra le discipline dell’architettura? Se cerchiamo una risposta tra i neo-straricchi, ci diranno che è la progettazione dei luxury hotel; se invece ci rivolgiamo ai residenti old money delle Ztl ci diranno che sono il paesaggismo e l’architettura dei giardini. Con la sostenibilità al centro di ogni discorso pubblico e politico, di ogni campagna pubblicitaria di beni futili, di ogni dispendioso festeggiamento, nei circoli più esclusivi ormai spopola il gusto del rewilding e il mito di William Robinson, autore di Il giardino naturale, testo di riferimento dell’aristocrazia giardiniera.

Per gli appassionati della progettazione dedita al mondo vegetale, che molti accomunano a una filosofia di vita, la Biennale Architettura di quest’anno e la 110° edizione del Chelsea Flower Show della Royal Horticultural Society, appena conclusosi a Londra, sono stati due caposaldi. Alla Biennale di Venezia ha meritato il Leone d’Oro il progetto Terra del padiglione brasiliano, incentrato sulla riparazione dei torti commessi verso “filosofie e immaginari della popolazione indigena e nera”. Al Chelsea Flower Show di Londra, ha vinto Horatio’s Garden, dedicato a Horatio Chapple, studente universitario ucciso da un orso polare alle isole Svalbard. È il progetto di un giardino apparentemente selvatico e però percorribile da disabili in sedia a rotelle o su lettini ospedalieri che vi possono raccogliere infiorescenze all’altezza delle loro mani, completamente pianeggiante e privo di un solo milligrammo di cemento. Il giardino non è solo “patient friendly” ma anche “environmentally friendly”. A detta dei suoi progettisti, Charlotte Harris e Hugo Bugg, unisce l’utile al dilettevole facendo risparmiare alla comunità l’equivalente di tre voli andata e ritorno Londra-New York. E infatti, quando durante la preview stampa abbiamo visitato la celebre fiera londinese percorsa nei 4 giorni di apertura da circa 170mila visitatori, il giardino futuro vincitore era il più affollato, in una spasmodica concentrazione di giovani e di pensioner in sedia a rotelle. Al contempo, la diatriba sull’inquinamento ambientale riempiva la prima pagina del Financial Times, ed è poi proseguita per giorni nelle pagine interne: a Montecarlo, il boss di Luxavition, primaria compagnia di voli privati, stufo delle polemiche sul dispendio di gas serra imputatogli, durante il vertice Business of Luxury del FT, si è buttato sulla controinformazione, proprio come un tempo si faceva a sinistra. Citando i dati di Quanto sono dannose le banane, saggio dell’accademico britannico Mile Berners-Lee, ha sostenuto che gli animali domestici inquinano più dei jet privati. Un gatto è responsabile di 310 kg di emissioni inquinanti all’anno, una cane di 700 kg. 

Ecco forse il motivo per cui passeggiando per il gigantesco centro Londra e persino nei lussureggianti e meravigliosamente manutenuti parchi, non ho quasi mai visto cani e dunque nessuna chiazza di pipì sui marciapiedi e sugli stipiti, mentre noi inquinatori italiani, che proprio dagli inglesi e dai loro film e romanzi abbiamo appreso ad amare gli animali domestici, abbiamo ormai parchi, giardini e marciapiedi ridotti a toilette per cani. Sarà forse che i veterinari britannici sono micidialmente costosi, sicché mantenere uno o due cani per famiglia come capita nelle nostre città, a Londra sia poco sostenibile?

Nel frattempo, mentre FT titolava “Pets pollute as much as private jets!”, al Chelsea Flower Show si svolgevano i rituali d’ordinanza: la visita del re, della regina e dei principi, con tutto il codazzo di dignitari e guardie del corpo, tallonati da arrampicatori sociali, imitatori, eccentrici, decorati, strampalati, alcolisti, performer, anziani con bastone, comitive femminili scaricate da colossali pullman. Nel freddo pungente e ventoso spiccavano signore in ciabatte addobbate con abitini di cotone a stampe floreali, senza calze e senza maniche, il tutto in mezzo a uno straordinario dispiego di fiori naturali e ibridi di profumi e forme sublimi, a giardini rewilded e giardini ispirati alle varie comunità etniche, ad arrostitori di hamburgher e bistecche, a dispensatori di gin tonic e coppe di champagne, a friggitori di fish and chips e a una marea di stand colmi di sculture e oggetti artistici da giardino di rara bruttezza, di borsette, ciabattine, vestitucci, mobiletti, tovagliette, copertine, tendaggi, sdraio, sculture, casette, cianfrusaglie per la tavola, fermaporta, ciaffi decorativi, in una specie di trionfo commerciale del ciarpame. Del resto, il giorno prima della preview londinese, durante uno degli eventi del Fuori Biennale 2023 – l’indimenticabile concerto nella Basilica di San Marco organizzato da Ca’ del Bosco per i sostenitori della Fondazione Venetian Heritage – avevamo incontrato Laura Sartori di Borgoricco, socia fondatrice dello studio di architettura Peregalli. “Il Chelsea Flower Show è diventato troppo commerciale, ormai è meglio Orticola a Milano”, ci aveva avvertito. Lì per lì non le avevamo creduto, e invece… La ragione potrebbe essere nel cosiddetto utilizzatore finale: mentre la consolidata sagra londinese ha come target la vecchietta dei sobborghi che vuole stipare di oggetti apparentemente artistici il suo backyard, l’utente finale di Orticola è il milanese altoborghese, l’unico che ha terrazze e giardini, mentre la massa degli abitanti della Grande Milano dispone a malapena di un balcone dove poggiare le scope, lo stendibiancheria e il monopattino del figlio. 

Rimane l’umiliazione dell’italiano in gita, proveniente dalle due capitali d’Italia: Milano e Roma, devastate dalle scritte, sporche ognuna a modo suo, piene di senzatetto e mendicanti tra i portici del centro e i piazzali delle stazioni, senza mai trovare un taxi e a Roma nemmeno un mezzo pubblico. Ci si chiede come facciano ‘sti inglesi. Forse hanno buttato la polvere sotto il tappeto, nascosto il male di vivere nelle periferie e nelle lande piovose dove nessuno di noi gitanti va a ficcare il naso.