Pensate un po’ a quanto sono cambiate le donne durante gli anni che dal 1938 hanno visto settimana dopo settimana uscire ben 4 mila numeri di Grazia. Penso a mia nonna, a mia madre, penso anche a me, che ho iniziato a sfogliare e poi a leggere Grazia quando ero alle scuole medie, a Brescia, nei primi anni Settanta. Una mia zia, professoressa di latino e greco, molto severa, aveva come unica cosa apparentemente frivola nella sua esistenza fatta di aoristo, di ottativo, di Ifigenia in Aulide, l’abbonamento a Grazia. Andavo a trovarla e la prima cosa che facevo era entrare nel suo office e aprire il nuovo numero di Grazia. C’erano racconti a puntate, e c’era soprattutto l’imprescindibile posta del cuore di Colette Rosselli, che si firmava Donna Letizia. Allora, le donne, che pure già aspiravano a lavorare e costruirsi una propria identità staccata da quella del marito, dovevano non farsi notare. Questa era la lezione di una figura femminile dalla celebre autonomia, come appunto Colette Rosselli, che era moglie di Indro Montanelli senza però esibirlo. Nelle sue risposte cercava di indirizzare le lettrici verso la conquista di una dignità derivante dall’indipendenza, dalla voglia di scegliere il proprio destino. Un bisogno bisogno di riposizionarsi nel mondo che, però, doveva passare attraverso il sotterfugio, il negarsi al fine di imporsi, il lavorio sottotraccia per non risultare sfacciate, o sgradevolmente dominanti. Se volevi essere sexy, eri incollata al ruolo della scema che si costruisce puntando su qualcosa di evanescente, la bellezza; se volevi essere colta e intelligente, dovevi inforcare gli occhiali, non tingerti i capelli, vestirti secondo i rigidi canoni di un’eleganza borghese e pudibonda.
Poco dopo, proprio in quegli anni in cui io crescevo e diventavo adolescente, esplose il fenomeno del femminismo. Per la mia generazione, gli anni Settanta divennero quelli della droga, dell’estremismo politico, dei morti ammazzati in nome di ideali funesti e strategie disumane, ma anche gli anni della presa di coscienza e della rivendicazione dei propri diritti. Perché mio fratello può avere tutti i flirt che vuole e io no? Perché, se esce la sera, nessuno gli chiede niente e invece io devo restare a casa? Perché si parla della mia verginità come di un valore, mentre quella di mio fratello è un disvalore? Nelle scuole, nei licei, si formarono collettivi femministi. Il divorzio, l’aborto, la scoperta della sessualità, furono i primi passi di una rinascita femminile guidata non più dalle suffragette inglesi, come a fine Ottocento, ma dai movimenti femministi americani. Tutte leggemmo libri di collettivi che ci guidavano alla scoperta del nostro corpo negato, come Noi e il nostro corpo, opera collettiva di un gruppo di ginecologhe di Boston. La mistica della femminilità di Betty Friedan ci aprì gli occhi: raccontava, attraverso i risultati di un sondaggio, la profonda insoddisfazione di donne che pur avendo studiato si erano dedicate alle “soddisfazioni del matrimonio e della vita di famiglia”, cioè alla “mistica della femminilità” promulgata da annunci pubblicitari, film, romanzi: la casalinga felice di fronte alla sua cucina ricolma di elettrodomestici, sempre “un passo indietro al marito”, come purtroppo ancora si usa sottolineare. E invece questo libro/sondaggio dimostrava che le donne annegavano nel malessere e nella frustrazione e che, mandati a scuola i bambini e al lavoro il marito, si sentivano umiliate da un ruolo che le escludeva dall’essere protagoniste della vita civile e del mondo del lavoro.
Frattanto, in Italia, il femminismo, data la pervasiva politicizzazione delle scuole e delle università, veniva apparentato ai movimenti di estrema sinistra, con una connotazione che obiettivamente aveva ben poco a vedere con i problemi femminili: diventava vassalla di un’idea politica, come se la lotta per l’appropriazione dei propri diritti non avesse abbastanza carburante per viaggiare da sola. Come se dovesse salire sull’autobus delle mille istanze della sinistra, per trovare accoglienza. Eppure siamo metà della popolazione mondiale, e se non ci fossero gli omicidi in culla, gli aborti selettivi, i femminicidi forse la proporzione diventerebbe a nostro favore.
Negli Stati Uniti, la storia del femminismo si è invece sganciata dai movimenti politici di sinistra per diventare un valore in sé, come pure è successo con la lotta per i diritti degli omosessuali. Si tratta di dignità, di civiltà, non di partiti politici. Sono movimenti trasversali, non c’è bisogno di essere di sinistra per rivendicare pari diritti e pari doveri. Puoi essere di destra, di centro o di niente, non conta.
Ma torniamo agli anni Settanta e Ottanta in Italia: il tema del corpo era fondamentale. Le donne avevano diritto all’orgasmo, al piacere, a scegliere se fare o non fare figli. La sessualità non doveva essere più l’espressione di un atto legato alla procreazione, e dunque il controllo delle nascite e la contraccezione erano un modo di permettere alla donna di liberarsi e autodeterminarsi. Poi, con gli anni Novanta, acquisito almeno parzialmente questo concetto, la battaglia si è spostata su altri temi fondamentali: il diritto al lavoro, a un salario pari a quello maschile, alla procreazione con il supporto dei datori di lavoro e degli asili, alle pari opportunità nella carriera, oltre che al dramma della violenza maschile (e al tema della rieducazione del maschio).
Grazia ha accompagnato questa crescita del mondo femminile: negli ultimi anni, il giornale si è trasformato in un veicolo di idee e di dibattito coraggioso, perché in Italia, purtroppo, la parola femminismo, che per me è fondamentale, ha continuato a suonare come una forma di estrema ribellione politicizzata. Risulta sgradevole, sguaiata, e molte donne, con mio dispiacere, donne che vanno a letto con chi vogliono ed escono la sera senza bisogno di autorizzazioni maschili, e lavorano e non accettano di restare a casa a fare la guardiana del focolare, molte di queste donne si dicono antifemministe, forse proprio perché non amano la parola in sé, al di là del suo significato. È come se nel suo senso si fossero aggiunte delle incrostazioni che invece non gli appartengono. Negli Stati Uniti la parola femminismo è cool, anche per le ragazze. Modelle che per lavoro puntano sulla propria immagine sexy, come Emily Ratajkowski, attrici come Emma Watson rivendicano con orgoglio il proprio essere femministe, senza che a nessuno venga in mente di connotarle politicamente. Si tratta di un concetto trasversale, di una lotta di civiltà che dà la misura del livello di vivibilità di un Paese. Dove i diritti delle donne sono negati, anche dal punto di vista legale e non solo da quello della mentalità, noi vediamo arretratezza, miseria (le donne contribuiscono al PIL), ignoranza, mancanza di prospettive.