In piazzale Cadorna, a Milano, sopra uno dei tubi colorati dell’imponente scultura “Ago, filo e nodo” di Claes Oldenburg, qualcuno ha graffitato, anziché il solito slogan, una massima in versi sciolti: “Borghesi ricchi si atteggiano artisti / Spreco di materiale / Invadenza legalizzata di suolo pubblico”. Sarei curiosa di vedere cosa (e dove) graffiterebbe l’anonimo censore dopo aver visitato una delle tante abitazioni di collezionisti d’arte contemporanea. D’accordo: in questi casi si tratta di spazi privati, ma il vituperato spreco resta il medesimo. Il problema è che molta arte contemporanea ha un’anima monumentale: per farsi notare, essendo fondata più su un’idea che su una tecnica, più sulla provocazione che sull’espressione, reclama un dispendio di materiali che a loro volta reclamano d’esser messi in scena in una sorta di grande vuoto pneumatico. Laddove la tecnica funziona anche nel piccolo, e spesso ne viene esaltata, la provocazione ha bisogno di esser gridata, altrimenti non se ne accorge nessuno. Perciò gli artisti contemporanei pensano in grande: si immaginano esposti su una parete dell’Arsenale di Venezia o torreggianti tra enormi spazi vuoti in qualche sala di fondazione industrial-mecenatesca; oppure installati nella piazza di una di quelle neoplasie urbane che sono i centri direzionali, luoghi che senza una scultura un po’ “strana”, sembrano solo dei mortori cementati. Ne consegue che l’appassionato di arte contemporanea, il visitatore compulsivo di fiere e gallerie, smette di comprare quadri che non stridano col salotto e, piuttosto, dispone la propria casa intorno a opere singole e immense, in modo che nulla disturbi, per esempio, l’assolutezza del pannellone di plastica grumosa di Gaetano Pesce, o della coppia di poltroncione metallico-bombardate di Ron Arad, o della parete in alluminio riflettente di Anish Kapoor (e per chi non può permettersi gli originali ci sono gli infiniti epigoni delle star del mercato artistico). Per non parlare di quell’importante branca dell’arte contemporanea che insiste creativamente su guerre e devastazioni fisiche e ambientali. Accostato a una qualsiasi di queste opere, non c’è oggetto domestico che non stoni o non paia ridicolo: nessun tavolino o cornicetta con foto, nessun quadro del nonno o cuccia di cane può convivere in modo dignitoso con una video-installazione in cui, sul retro di un palazzo bombardato, un ragazzino gioca a pallone con una testa umana. Tornando all’anonimo di Piazza Cadorna, ci si chiede cosa succederà di queste opere, perlopiù fatte di materiale plastico ferroso, quando – come quasi sempre succede – verranno a noia a chi se le è messe in casa. Una volta si staccava un quadro dalla parete e lo si metteva in un ripostiglio in attesa di venderlo, cederlo a un figlio, tornare a farselo piacere. Oggi è difficile che un appartamento sia dotato di ripostigli adatti a contenere oggetti così ingombranti. Che l’arte contemporanea conduca a nuova emergenza ecologica?