Ai piedi dello scalone centrale del Museo Puškin di Mosca, mostrate il biglietto d’ingresso a una paciosa babuska. Il vostro sguardo si posa su un cartello appeso lì accanto. È scritto in russo e in simil-inglese, e, oltre al divieto di “introdurre valigie nel museo” e all’obbligo di spegnere i telefonini, dichiara che “è severamente proibito lasciare nel guardaroba pistole e altri armamenti”. Ecco quindi che, mentre indugiate tra le statue e i mosaici, non potete fare a meno di immaginare fra i visitatori un malavitoso che all’improvviso si rammenti dell’avvertenza, torni precipitosamente a rovistare nella sua pelliccia di lupo siberiano, ne prelevi gli “armamenti” e se li porti diligentemente a spasso tra le opere d’arte. A parte questa visione inquietante, però, la vostra visita al Puškin è destinata a svolgersi senza altri brividi che non siano quelli procurati dalla visione delle opere d’arte, in compagnia di pochi turisti stranieri e numerosi visitatori russi piuttosto attempati, nonché sparute scolaresche splendidamente irreggimentate, con i ragazzi che ascoltano con attenzione le spiegazioni degli insegnanti – o che almeno riescono a fingere in modo credibile.
E’ necessaria un’unica precauzione: al Puškin, oltre a non esserci un negozio-libreria come quelli che ormai si trovano in quasi tutti i musei, le targhette indicano in inglese solo il titolo dell’opera, mentre tutto il resto – descrizioni, storia, rimandi – è scritto in caratteri cirillici; vi converrà quindi arrivare già provvisti di guida.
Inaugurato nel maggio 1912 come Museo di Belle Arti Alessandro III, il Puškin è un edificio con la facciata da tempio greco sostenuta da un poderoso colonnato ionico: forme neoclassiche che creano un curioso rimando ai coevi musei americani, accomunando per scelta architettonica due imperi altrimenti antitetici. Benché nato per ospitare i calchi in gesso delle statue dell’antichità classica, e via via arricchitosi di reperti delle civiltà mesopotamiche ed egizie, oggi il Puškin è noto soprattutto per la sua straordinaria raccolta di dipinti francesi del XIX e XX secolo, grazie alla quale è diventato uno di quei musei-giacimento da cui attingono instancabilmente le mostre-monstre che allietano le nostre stagioni culturali, specialmente quelle a base di Impressionisti e relativi pre- e post-.
Nello splendido racconto “Mio padre e il suo museo”, la scrittrice e poetessa Marina Cvetaeva, figlia dell’ideatore e creatore del Puškin, ne racconta con prosa impareggiabile gli sforzi, la caccia ai finanziamenti e alle sculture, le visite al cantiere con i figli bambini (incuriositi dalla cordialità degli operai, perlopiù italiani). Ecco come descrive il giorno della solenne inaugurazione, con dignitari decrepiti che sembrano più morti dei calchi in gesso, gruppi di giovani arciduchi più rigidi di un bassorilievo, dame incipriate che paiono “bambole vuote”, e poi medaglie, rughe, militari, preti… e ovviamente lo zar e la zarina: “Pare che oggi tutta la vecchiaia della Russia sia affluita qui per inchinarsi all’eterna giovinezza della Grecia. Una viva lezione di storia e di filosofia: ecco ciò che il tempo fa degli uomini, ecco cosa fa degli dei. Ecco ciò che il tempo fa dell’uomo, ecco ciò che (sguardo alle statue) l’arte fa dell’uomo… E un’altra sorprendente contraddizione: tra la novità dell’edificio e l’infinita decrepitezza di chi lo guarda, tra la verginità dei pavimenti e l’infinita usura dei piedi che vi camminano sopra. Visioni (le statue), spettri (i dignitari)…”.
Dopo aver palpitato per l’avveramento dei sogni del professor Ivan Cvetaev e aver goduto di una simile descrizione, si entra nel museo pronti a gioire per il biancore delle statue – e si finisce invece per rimanere travolti da uno spettacolo cromatico senza pari, a partire dalle tinte straordinariamente vivide delle maschere funerarie egizie del I secolo, passando per le nature morte di Snyders e i Bacchanalia di Rubens, imbattendosi in uno dei dipinti di più esplicito erotismo mai visti in un museo di belle arti (Ercole e Onfale di François Boucher, del 1730), fino ad arrivare ai celebri quadri dei ricchi commercianti russi, in particolare quelli delle collezioni Shchukin e Morozov.
“Boulevard des Capucines” di Monet, “Nuda” di Renoir, “La ronda dei carcerati” di Van Gogh, “Che, sei gelosa?” di Gauguin, “I due saltimbanchi” di Picasso, “Pesci rossi” di Matisse, “Donne sul ponte” di Munch: sono solo alcuni dei dipinti del Puškin che vi lasceranno senza fiato, per la loro ineffabile bellezza ma anche per la preveggenza di chi li acquistò quando gli autori erano ancora dei semplici e misconosciuti imbrattatele.