Camilla Baresani

Sommario

La casa di uno scrittore

- AD - Storie

Gli scrittori sono tipi che escono di casa malvolentieri. A parte quelli alla Bruce Chatwin, autori da taccuino con l’animo del girovago, gli altri preferiscono passare lunghi periodi rintanati a scrivere in case piene di gatti, cani, bottiglie di whisky e sigarette. Chi scrive ha bisogno di silenzio e concentrazione, e soprattutto di molte ore libere davanti a sé. E’ molto difficile darsi limiti d’orario, poiché tante volte la frase giusta arriva in un momento inatteso, al termine di una giornata passata fissando il muro davanti a sé o frugando deconcentrati nel magma dei siti internet , oppure di notte quando ci si sveglia di soprassalto con l’intuizione che potrebbe sbloccare un punto morto della pagina. Cosicché la casa di uno scrittore è quasi sempre anche il luogo dove lavora: avere continuamente a disposizione quello che può servire – gli appunti, il computer, il dizionario – è per chi scrive un grande sollievo. Data la particolare natura di questo lavoro, si tratta di case necessariamente “interiori”, che permettano cioè di raccogliersi in silenzio pur avendo tutti i mezzi – telefono, fax, internet – per cogliere le sollecitazioni di quel mondo esterno che si vuole raccontare. Le case “esteriori” sono invece quelle di chi deve mostrare: un notaio che riceve amici e probabili clienti, un attore che deve dar segno di esistere, lo studio-abitazione di un pittore che vi espone le sue opere.
Forse paradossale ma anche realistica la risposta data da William Faulkner a Jean Stein che gli chiedeva quale fosse l’ambiente ideale per un artista: “Secondo me, un bordello è il miglior ambiente di lavoro che uno scrittore possa desiderare. Gli dà una perfetta indipendenza economica; lo libera dalle ansie della fame; gli dà un tetto sulla testa e assolutamente niente da fare tranne stilare qualche semplice resoconto e andare una volta al mese a pagare la polizia locale. Durante il giorno, che è il momento migliore per lavorare, il posto è tranquillo. Di sera c’è una discreta vita sociale – se gli va di prender parte – che non lo fa annoiare; (…) l’unico ambiente di cui uno scrittore ha bisogno è un posto dove possa avere, a basso costo, pace, solitudine e piacere. Un ambiente sbagliato non farebbe che fargli salire la pressione e fargli passare la maggior parte del tempo in uno stato di frustrazione e di rabbia. L’esperienza mi insegna che gli oggetti di cui ho bisogno per il mio lavoro sono carta, tabacco, cibo e un po’ di whisky”.
Ancor prima di pensare che mi sarebbe piaciuto diventare scrittrice, la progettazione del luogo ideale dove abitare è sempre stata una delle mie fantasie preferite. Già da piccola, all’età delle scuole elementari, continuavo a immaginare il momento in cui finalmente avrei abitato da sola in una casa tutta mia, e da allora credo di aver disegnato centinaia di piantine di appartamenti ideali sui fogli a quadretti strappati dai quaderni. Un’abitudine che non ho mai abbandonato: benché da qualche anno viva in una casa che mi piace moltissimo, non ho mai smesso di sognare e disegnare case ancor più ideali, o differenti sistemazioni degli interni di quella in cui abito. Inevitabilmente, i desideri e lo stile di vita cambiano negli anni, lasciando ogni volta un segno sulla disposizione dei mobili, sui rivestimenti dei divani, sulle cose accumulate dentro e fuori dagli armadi. E proprio i mutamenti, con il segno delle stratificazioni che lasciano, sono il bello delle case non concepite da architetti o interior designer, che invece molto somigliano alla staticità dei seni e delle facce ridisegnati dai chirurghi plastici.
Nella mia vita ho avuto periodi in cui cercavo di far sì che la mia casa fosse poco più di una sala da pranzo con annessa cucina, adatta soprattutto invitarci a cena gli amici; in altri periodi l’ho sentita come una biblioteca con sala di lettura, e accumulavo libri per il piacere di vederli e poter dire tra me e me, con soddisfazione: “Pensa quanta roba ho ancora da leggere!”. Ora, invece, vado trasformando la mia casa in una sorta di arzigogolata scrivania, fatta di tanti tavoli e piani d’appoggio – sedie e divani inclusi – su cui colloco di volta in volta fogli, libri con una matita infilata a mo’ di segnalibro, appunti, ritagli d’articoli, bozze da rivedere, giornali e riviste non ancora sfogliati. E comincio a guardare con sospetto, a volte addirittura con un senso di oppressione, le piramidi di libri ammonticchiati da cui tener lontana la polvere, e che prima o poi dovrò collocare nei vari ordini, alfabetici e per argomento, con cui anni fa impostai la libreria – ormai piena. Non sogno più una stanza dalle pareti estensibili da riempire di mensole: come avessi un armadio inutilmente pieno di vestiti di taglie troppo piccole o di foggia che non mi piace, ho iniziato a sfoltire la gran quantità di volumi, regalando alcuni libri che magari mi sono portata dietro di trasloco in trasloco e ormai sono certa non leggerò più.
In passato desideravo una casa con un aspetto seducente, espansivo, mentre ora cerco un rifugio, una specie di tana, il luogo di un’intimità totale, esclusiva. Come se la mia vita vera, quella che non si scrive, potesse ormai svolgersi solo fuori di casa.