Benché miseramente pagato (se ne lamentava persino l’arciricco Garcia Marquez in un articolo di Repubblica di poco tempo fa), il lavoro dello scrittore è ammantato da una discreta aura di fascino. Sparse per il mondo si trovano persino fondazioni che hanno l’unico scopo di facilitare la vita creativa di chi scrive: luoghi immersi nella quiete e nella bellezza, dove si viene mantenuti di tutto punto affinché si trovino le migliori condizioni per dedicarsi al proprio lavoro, lontano dai piccoli affanni quotidiani. Nessun board di benefattori, credo, si occupa di ospitare geometri o commesse o dentisti affinché possano concentrarsi con agio nei loro pur importanti pensieri. Quindi lasciamo i premi Nobel a lamentarsi, e approfittiamo delle occasioni.
Mi è capitato d’essere invitata a passare un mese in uno di questi “centri salute” per scrittori: Ledig House, due ore a nord di New York, nella Columbia County. La cittadina più vicina è Hudson, lungo l’omonimo fiume. Stazione ferroviaria, ospedale, campo da golf, casette di legno così pittoresche da sembrare appena montate per la scenografia di un film in costume. Tremila abitanti e un centinaio di negozi di antiquariato americano, alta percentuale di gay newyorchesi che se ne occupano, un museo degli Shaker (i primi coloni protestanti) e uno del Firefighting – in pratica un museo dei pompieri. Nel week-end i prati davanti alle case sparse nella campagna e alla periferia di Hudson si popolano di un’incredibile accozzaglia di carabattole: vecchi mobili, scolapasta, vestiti, bambole, bigiotteria, materassi, perfino dentiere d’antan – reperti di cantina messi in vendita dalle famiglie nei fine settimana estivi.
Ledig House, a trenta chilometri da Hudson, è in una grande proprietà (Art Omi Center) che ospita, a rotazione stagionale, scrittori, musicisti e scultori. Tre belle case di legno in cima a una collina, una con la cucina e gli spazi comuni, altre due con le camere per gli artisti (non più di dieci per ogni “sessione”). Prati e boschi a perdita d’occhio e un parco arredato da sculture contemporanee. Una manager della casa durante il giorno, un cuoco ogni sera, e per il resto isolamento e tranquillità. Nei dintorni, acquitrini paludosi, qua e là fattorie con patriottica bandiera sulla porta, strade percorse da qualche raro pick-up. Nelle contrade più solitarie, cartelli stradali sforacchiati da pallottole. Di giorno, un continuo cippìo di strane varietà d’uccelli appostati sulle piante secolari. Di notte un inimmaginabile fragore di rane. E marmotte, scoiattoli, caprioli, conigli: tutto uno sgusciar via d’animali quando giri a piedi o in bicicletta. Al villaggio, dove gli scrittori vanno con l’auto della casa per far provvista di vino e birra (gli alcolici sono l’unico benefit non incluso nel trattamento), c’è un improvviso blocco stradale: una tartaruga grande come una testuggine attraversa la strada, la testa di rettile protesa fuori dal guscio, le zampette arcuate e farraginose che la trasportano con ovvia lentezza.
Gli scrittori hanno un unico dubbio, e non da poco: si lavora di più a casa, nel caos quotidiano, o sperduti in campagna senza nulla da fare che non sia qualcosa di salubre, come una gita in bicicletta, una nuotata in piscina, una lunga passeggiata? Non si finirà per andare nel supermercato più vicino a riempirsi il carrello della spesa di vini e liquori, trasformandosi in tanti piccoli Bukowsky? Tutti siamo partiti da casa con un romanzo o un saggio da scrivere, e un misto di preoccupazione e speranza: nessuno sa come si reagisce in questi casi, se le facilitazioni facilitino davvero o se invece creino impalpabili ostacoli.
Sono l’unica italiana. Ci sono due tedeschi, un inglese, un’americana, uno svedese, un’australiana, un guatemalteco, un’indiana. La cosa curiosa è che siamo tutti dei clichè. L’inglese si arrotola le sigarette con tabacco Drum, ha capelli rossi, giacca di tweed e scarponcini con chilometri di stringhe, anche nelle giornate più calde. L’indiana ha incollato alle pareti della sua stanza una divinità piena di mani, e mangia continuamente riso basmati. I tedeschi: uno, con gli occhialini, ha la faccia di chi ha studiato filosofia a Heidelberg; l’altra, in perenne stato d’animo competitivo e comparativo, vede ovunque disorganizzazione e imprecisione. Beve birra direttamente dalla bottiglia. Io, da brava italiana, ho piantato il basilico nel giardino e ogni giorno mi cucino un piatto di pasta De Cecco portata da casa. L’americana, che sta scrivendo un memoir sulla sua infanzia al Greenwich Village, è stata cameriera, cuoca, alcolista anonima, attivista proaborto e molte altre cose. Il guatemalteco è una simpatica canaglia, beve forte, ama la compagnia delle donne, si annoia e va continuamente a New York.
Si vivono curiosi casi di political correctness al contrario. Nel senso che io, bianca e occidentale, dovrei stare attenta a non ferire l’amor proprio di ebrei, negri, handicappati, arabi e via dicendo. Capita invece che durante un’invettiva della simpatica scrittrice di Bombay contro Sonia Gandhi (“Assurdo, cosa può saperne dell’India un’italiana?”), la poverina si blocchi di colpo e mi guardi con aria contrita. Poi, di fronte a tutti gli altri scrittori, il mea culpa: “Scusa se involontariamente ti ho offeso. Non volevo parlar male di un’italiana in quanto italiana, ma solo esprimere…”.
Giochi di società con variante da scrittori: la sera, dopo cena, ci si sfida a chi riesce a indovinare il titolo di un romanzo – o di un film tratto da romanzo – mimato da un componente della squadra avversa. Oppure si discetta di neologismi e modi di dire dei vari tipi di inglese parlati dagli ospiti. Sand nigger, per arabo, scatena prima l’ilarità generale, poi i sensi di colpa.
Ogni venerdì sera, da New York, arrivano agenti e editor di case editrici e riviste. Spiegano agli ospiti il proprio lavoro e le relative scelte editoriali, portano in dono volumi e riviste. Gli scrittori meno timidi si dedicano a discrete azioni di pressing. Essere pubblicati negli States è il sogno di tutti.
Gli scrittori non vanno in chiesa, a detta della manager di Ledig House.
In America, al posto delle presentazioni di libri con relativo dibattito, si usano i reading. Sicché gli scrittori americani sono abituati a leggere in pubblico le proprie creazioni, e lo fanno con un’abilità istrionica difficilmente riscontrabile fra gli autori italiani, imbarazzati, chiusi in se stessi, timidi.
Dopo tre settimane a Ledig House arriva l’evento clou: reading, barbecue, e gli abitanti del circondario invitati al gran completo per la serata. Da giorni gli scrittori provano la voce, si consultano su quali siano le pagine più efficaci da leggere.
Il pubblico, attentissimo, ha l’aspetto dimesso: agricoltori dei dintorni? pensionati che sbarcano il lunario? ex professori universitari impoveriti? Macché: il giorno dopo scopriamo che gli spettatori erano perlopiù ricchi finanziatori di Ledig House e dell’Art Omi Center.
L’Italia: scopri che tutti ci sono stati in vacanza, oppure ci hanno studiato per un anno, oppure vorrebbero andarci. Non solo gli intellettuali: anche il cuoco e la manicure del locale salone di bellezza. La descrivono (o immaginano) come un paese composto unicamente da Umbria, Toscana, Roma e Bellagio; luoghi dove si mangia bene e si vive dolcemente, immersi nella bellezza. Tutti sanno che è amministrata da un signor Berlusconi col conflitto d’interessi. Nessuno parla di mafia, corruzione, inciviltà diffusa. Con i casi Enron, le Marthe Stewart, l’11 settembre e la disastrosa guerra all’Iraq, ormai gli americani pensano solo ai propri, di guai.