Ecco alcune parole chiave per interpretare i vostri mutevoli umori agostani, corredate di qualche citazione di rinforzo (da rigirare a piacimento: è tutto controllato, non di riporto).
A come anoressia (la mania d’esser magri in costume da bagno), ma anche come alcol, voce – da ogni punto di vista – assai più interessante. Oppure come apatia, e in fin dei conti anche come avventura (certo, le avventure capitano quando meno te le aspetti, ma qualcosa di antropologicamente interessante non vorrà pur succedere anche in agosto?)
Alcol: lasciando perdere i problemi di immagine e micragneria dietetica o salutista che affliggono parte consistente della popolazione, ecco l’indovinato consiglio dell’Artusi per i vostri pranzi di agosto: “…Popone col prosciutto e vino generoso perché giusta il proverbio: Quando sole est in leone / Pone muliem in cantone / Bibe vinum cum sifone”. L’Artusi, poverino, viveva in una società ginofobica, talché non gli passò per la testa di suggerire soluzioni analoghe a mogli altrettanto stufe della relazione coniugale e con la stessa inclinazione alla voluttà. Tuttavia si suggerisce alle lettrici di ribaltare la frittata e procurarsi in perfetta solitudine o con amiche adeguate (per chi la conosce mgm è un’ottima compagna) quelle pregevoli sensazioni intellettuali derivanti da qualche bicchiere di vino bianco ghiacciato di troppo. Quando vi accorgerete che la vostra mente diviene “caoticamente illuminata” (così, dopo una sbronza, la definì Giorgio Manganelli, uno di cui la poetessa Alda Merini disse: “Il dolore della perdita di una persona crea sempre delle cose. Per esempio, quando l’ho lasciato, Manganelli è diventato un grande scrittore”), quando raggiungerete questa pregevole ancorché labile sensazione intellettuale, allora è arrivato il tempo di concentrarsi sui propri sogni d’avventura.
Perché noi lettori spesso siamo gente dalla muscolatura poco tonica, più adatta alla lascivia che non all’azione. E dunque non ci resta che dedicarci dal fondo della nostra poltrona o dal comfort della chaise longue dei bagni, a immaginare cosa ci capiterebbe se la nostra vita fosse solo un po’ più attiva. Del resto già Celine, parlando di Napoleone, ci ricordava quanto sia nociva un’esistenza davvero avventurosa. “Fu il suo tormento, di quel pazzo, l’esser costretto a fornire delle voglie d’avventura a mezza Europa stravaccata. Mestiere impossibile. Lui ci restò. Mentre il cinema, questo nuovo piccolo stipendiato dei nostri sogni, te lo puoi comperare quello, procurartelo per un’ora o due, come una prostituta”. Quindi nelle poco movimentate notti dei vostri bueni ritiri, cosa c’è di meglio che fantasticare in proprio o, in mancanza di slanci immaginativi autonomi, guardarsi qualche film del genere che passa a notte fonda su Raitre (a caso: Il terzo uomo, Vivere per vivere, L’infernale Quinlan, Testimone d’accusa)?
Del resto, siamo sinceri: il lettore del Foglio è più incline all’apatia che a uno sciocco attivismo fine a se stesso. Se proprio me lo devo figurare, questo fantomatico lettore agostano, lo ritaglio sul famoso bozzetto flaianesco dell’intellettuale in vacanza: “Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò alle sei, fece la doccia, si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e si svegliò a mezzogiorno”. Nulla a che vedere con la vulgata moraviana, che ci racconta lo scrittore, arcigno e diligente, a spendere le sue mattinate nella casa di Sabaudia, intento – come sempre – a battere sui tasti della macchina da scrivere l’ennesimo capolavoro (moto perpetuo – come il pendolo – da cui scaturì l’occupazione sistematica dei banchi delle librerie e delle riviste giornalistiche per anni, per decenni). L’apatico è del resto – al contrario della diligenza moraviana – tipo così comune che persino quell’infelice di Cioran, riuscì a definirlo non diversamente da Flaiano: “Alzarsi come un taumaturgo risoluto a popolare di miracoli la giornata, e poi cadere sul letto per rimuginare fino a sera guai d’amore e di denaro”. Insomma, l’inconcludenza è la medesima, anche se nel primo quadretto abbiamo il solito italiano alla Alberto Sordi, mentre nel secondo va in scena un’apatia più grandiosa, tolstojana, ci si figura un principe russo esule a Parigi negli anni ’30, capace di perdere una fortuna in una notte – tra chemin de fer e roulette, capace di perdersi per le grazie di una prostituta d’alto bordo o d’una danzatrice dissoluta.
In definitiva, come Eliot scrisse in mirabili versi di Terra desolata: “Aprile è il più crudele dei mesi: genera / Lillà dalla terra morta, mescola / Ricordo e desiderio…”; eppure anche agosto quanto a crudeltà non scherza, con le sue promesse mai mantenute, e la fine di ogni illusione, dell’idea che le vacanze siano un toccasana per le nostre esistenze ingarbugliate.
Mesi crudeli dunque, gli unici dell’anno il cui nome inizia per a, come fosse una sorta di alfa privativo: meglio sarebbe andare in vacanza a gosto, subire scombussolamenti ormonali in aprile.
G, la gelosia, i gusti (degli altri – propri invece i disgusti), e last but not least: mai farsi mancare un pizzico di goduria.
Gelosia: stato d’animo diffuso tutto l’anno, vive in agosto i suoi momenti più terribili. Amanti forzosamente separati da quella noia di legami coniugali, coppie legittime prese da mille sospetti, pericolosi confronti con i legami più freschi o più danneggiati di altri coniugi appena conosciuti in spiaggia. “Nella ricerca del tormento, nell’accanimento alla sofferenza, solo il geloso può competere con il martire. Eppure, si canonizza l’uno e si ridicolizza l’altro”, nota con arguzia l’immarcescibile Cioran. In qualche località marina che aspiri a darsi un po’ di notorietà, si potrebbe pensare di commissionare una statua che rappresenti la gelosia. In fin dei conti non hanno fatto un monumento anche a Manuela Arcuri? Suvvia, amministratori del bene pubblico, un po’ di iniziativa…
Gusti: se ci pensate, i gusti degli altri – da subire, da sopportare, da criticare – rappresentano il principale argomento delle chiacchiere estive, di chi, cioè, ha tempo da perdere. Di noi, della nostra vita, preferiamo invece parlare definendo ciò che non sopportiamo più. “I nostri disgusti? Deviazioni del disgusto di noi stessi”, constata quel simpaticone di Cioran. Nulla da dire, i suoi Sillogismi sull’amarezza rischiano di divenire il nostro breviario agostano.
“Degli uomini son vari gli appetiti: / a chi piace la chierca, / a chi la spada, / a chi la patria, a chi gli strani liti”, verseggia l’Ariosto nelle satire. A noi, che ormai non crediamo più a nulla, tutte e quattro le tipologie sono venute a noia. Eppure ci piace la varietà umana e siamo pieni di amici… evviva, la nostra testa ribolle di contraddizioni sotto il sole agostano!
Vincenzo Vitale, Maestro di Riccardo Muti, ormai vecchio e provato dai ritmi e dagli esotismi della modernità, un giorno gli disse: “Io adesso che sto diventando vecchio, vorrei vivere solo di sfumature e delicatezze”. Noi, benché semigiovani, spesso aspiriamo similmente ad atmosfere d’emotività ed estraneità ovattata, ma poi, dopo qualche giorno di tediosa vacanza comandata, di anestetico relax peggio che fosse termale, ci riprende questo gusto birichino per una vita smargiassa, per le atmosfere goduriose, ed eccoci di nuovo lì a dannarci l’anima per le passioni, le aspirazioni, le ambizioni, le libagioni…
O come ozio, come orso.
Ci sono persone che trascorrono le vacanze con l’aria non tanto assonnata, quanto affaticata dal sonno. E’ gente poco tagliata per il riposo, che tolta dalle sue occupazioni lavorative, dai suoi piccoli o grandi traffici non riesce a divertirsi e attende nell’ozio più tedioso la fine del travaglio vacanziero. Un ciondolare inglorioso che non fa nemmeno uno stile, una maniera “alla Oblomov”, e innervosisce chi è costretto ad assistere allo sfoggio di questa fatica di riposare. Ma anche in questo caso abbiamo la nostra battuta filosofica di rinforzo, e addirittura di Pascal: “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non saper restarsene tranquilli in una camera”. Camera, spiaggia, pizzo dolomitico…
Del resto a chi non sa stare in vacanza ed è sempre sulle spine perché non vuole staccarsi dal lavoro, bisognerebbe contrapporre la pigra saggezza dei proverbi russi: “ Il lavoro non è un orso, non fuggirà nel bosco”.
S come strade, solitudine, stupidità, e perché no, anche suicidio.
Certo, di strade ne percorriamo tutto l’anno, ma d’agosto si è continuamente ossessionati da bollettini del traffico e dai problemi di viabilità. Si finisce per odiare le grandi arterie, i tratti autostradali e provinciali e comunali, si rimpiange chi magari è rimasto in città e passeggia per strade deserte, parcheggia con agio e si concede il lusso di mettere il naso per aria e guardare in su. Camminare nella notte, la città deserta, e come in certi versi di malinconica perfezione di Borges, constatare che: “…ogni casa è un candelabro dove le vite ardono come candele isolate”.
Passeggiando per il centro di Forte dei Marmi, nota località turistica e meta dello shopping orientato alle griffe più scontate nonché alle loro imitazioni (Prada, Gucci, Fendi), ci si chiede se tutte queste persone che intasano i negozi nelle ore postprandiali e poi barcollano in giro con le loro borse e biciclette e mariti e abbronzature e acconciature, mettendo in scena l’inutilità totale di certe pulsioni, se questi consumatori e poco altro (chiaro, anche loro avranno un cuoricino che batte e fors’anche – per chi ci crede – uno straccio d’anima), non finiscano per evocare certe descrizioni che trovi ne Il mare non bagna Napoli della Ortese: “Era l’ora che Napoli si accende e gonfia come una medusa; e le sue ferite risplendono, i suoi cenci si coprono di fiori, e la popolazione barcolla. C’era per le strade un effetto di movimento e di eccitazione, che poi, guardando meglio, era nulla”.
Napoli o Buenos Aires, Forte o Capri, ad agosto si finisce per essere comunque assaltati dalla propria solita, vecchia e cara solitudine: “Sarei più sola senza la solitudine”, scrisse una donna molto poetica ma poco allegra, Emily Dickinson.
“Un uomo che legge non e’ mai solo”, recita invece un anonimo aforisma. Una di quelle banalità tautologiche utilizzate per ornare segnalibri e libri per non lettori, un po’ Paulo Coehlo un po’ saggezza iniziatica a buon mercato per avventori sprovveduti. A quanto ci risulta il senso di solitudine è una tipica patologia per intellettuali occidentali e decadenti, pronti a suicidarsi a più non posso. Scriveva Montale: “Non penso che il trionfo dei nuovi mezzi tecnici sia senza importanza in un mondo che tende a un nuovo umanesimo positivi e scientifico e che si sforza di rendere migliore la vita di molti uomini, ma ritengo che anche domani le voci più importanti saranno quelle degli artisti che faranno sentire, attraverso la loro voce isolata, un’eco del fatale isolamento di ognuno di noi. In questo senso, solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano; gli altri – gli uomini della comunicazione di massa – ripetono, fanno eco, volgarizzano le parole dei poeti, che oggi non sono parole di fede ma forse potranno tornare a esserlo un giorno”. Tiè, e abbiamo sistemato anche i pubblicitari, i pr, i lobbisti…
La solitudine, nuda e cruda o associata all’attività intellettuale, è al centro delle riflessioni di molti scrittori. Iosif Brodskij, gentilmente, cerca di consolarci quando la persona che ci siamo portati in vacanza si dimostra inferiore alle nostre seppur basse aspettative: “… mi pare che un libro, come interlocutore, sia più fidato di un amico o dell’innamorata. Un romanzo o una poesia non è un monologo, bensì una conversazione tra uno scrittore e un lettore: una conversazione del tutto privata, che esclude tutti gli altri – un atto, se si vuole, di reciproca misantropia”. Del resto siamo in un paese di cultura cattolica, e allora perché non tenere presente il motto di Tommaso D’Acquino: “Beata solitudo, sola beatitudo”? Non c’è dubbio, si farà il possibile per inculcarsi il concetto, anche se detto così ha quella pesantezza sentenziosa per cui si finisce per preferire le parabole da cabaret di Woody Allen: «“Mamma, come si mangia male in questo posto!”. “Oh sì, il vitto è uno schifo”, dice la madre, “e oltretutto ti danno porzioni così piccole!”. Beh, questo è essenzialmente quel che io provo nei riguardi della vita: piena di solitudine e squallore, di guai, di dolori, d’infelicità…e oltretutto dura troppo poco».
Alla fine, mentre sprofondiamo nel nostro abisso estivo, con quel poco di tempo libero sufficiente ad arrovellarsi e chiedersi il perché e il percome della nostra esistenza, ci prende il sospetto che un po’ di stupidità non abbia mai fatto male a nessuno, e a noi in particolare allevierebbe ‘sto mal di vivere che ci guasta le vacanze. Flaiano diceva: “La stupidità degli altri mi affascina, ma preferisco la mia”, sottile constatazione che siamo pronti a sottoscrivere. Una semplice battuta che finisce per risultare più efficace dell’intero pamphlet di Carlo Maria Cipolla, Le leggi fondamentali della stupidità umana, in cui si scrivono pagine e pagine per arrivare a una distinzione tra “banditi”, che danneggiano gli altri per trarne un beneficio, “sprovveduti”, che procurano danno soltanto a se stessi, e “stupidi”, che nuocciono contemporaneamente a se stessi e al prossimo.
E così, tra stupidità e suicidi (degli altri e a volte nostro, ma solo minacciato), l’estate si gonfia, lievita, e poi ad agosto comincia a svaporare come un soufflé mal riuscito. Ci si suicida di più ad agosto o in primavera? E’ il ribollire di fiori o la calura a dare il colpo di grazia alla nostra capacità di resistere ai compiti, ai doveri, agli impegni, ai fallimenti, alle delusioni? L’argomento non è peregrino, ma poiché noi preferiamo chi lo tratta con ironia, siamo costretti a citare di nuovo Svevo, quando descrive il cognato di Zeno, dopo il tentato suicidio dimostrativo che il caso ha invece condotto a buon fine: “Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo. La rigidezza già avanzata esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto senz’ averlo voluto. Sulla sua faccia bruna e bella era impronto un rimprovero..”. A Guido accade il contrario di quello che portò la grandiosa Dorothy Parker a scrivere questi versi, dopo una serie di suicidi malriusciti che la convinsero che era meglio vivere: ” I rasoi fanno male / i fiumi sono freddi / l’acido lascia tracce / le droghe danno i crampi / le pistole sono illegali / il gas ha un odore orrendo”.
Molti a questo punto si chiederanno: “E S come sesso?” Diciamolo: l’argomento non è adatto ai lettori del Foglio, ne parlano già tutti, va lasciato alla concorrenza priva di spunti originali. Del resto, ci risulta che il direttore di questo giornale abbia a suo tempo dichiarato: “Il sesso? Mannò, ormai lo fanno solo i portoricani”. Tale bruciante constazione, che ha quasi il sapore della scomunica per i poveri praticanti, ci spinge ulteriormente a un dignitoso silenzio
T tradire, turista, Tom (è il nome – classico in Italia e all’estero – del cane di chi firma quest’articolo, ma un pizzico di elementi autobiografici non guasta mai.)
Tradire: “Tradire, si dice, è presto detto. Bisogna anche cogliere l’occasione. E’ come aprire una finestra in prigione, tradire. Ne hanno voglia tutti, ma è raro che ci riesci”, constata Celine nel Viaggio. D’estate si tradisce di più? Non direi, ma senz’altro se ne parla continuamente, in privato e sui giornali, per cui anche chi non ci avesse mai pensato finisce per farsene venire la curiosità. Ne Il giocatore invisibile di Giuseppe Pontiggia troviamo uno dei suoi dialoghi leggeri e di realismo beffardo: “Tu, intanto, cosa ne pensi?”, “Di che cosa?”, “Del tradimento.”, “Normale.” rispose Salutati, dopo averci pensato. Il professore lo guardava con vaga gratitudine: “Normale in che senso?”, “Nel senso letterale, ossia che rientra nella norma” rispose Salutati, vuotando la tazzina e posandola sul piatto. “Il caso contrario è una eccezione, legata a una mirabile serie di circostanze casuali.”. Servirà questo scambio di battute da ributtare su chi, eventualmente, scoprisse una nostra innocua infedeltà? Potremo farci schermo a forza di pagine di libri e citazioni più o meno dotte nei momenti di parossismo recriminatorio? Se Sonia Raule un giorno approfittasse delle occasioni e si concesse qualche libertà, sarà in grado di recitare a Kaiser Franz questi versi di Teognide (notare la metafora marina che evoca bufere estive a Capalbio): “Non va bene a un marito vecchio una moglie giovine: / è una barchetta indocile al timone, / gli ormeggi non la reggono: spezza le corde, e approda / nella notte, sovente, ad altri porti”. E se la nostra Sonia, pur non scoperta nelle sue eventuali divagazioni, si facesse sopraffare da sciocchi rimorsi, eccole – pronto per l’uso – un ragionamento classico e non privo di una sua profonda dignità teorica: “Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell’epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt’altro. Io le dicevo oramai non più soltanto le parole di affetto che avevo sempre avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l’altra”. Citiamo il nostro prediletto Italo Svevo, che sulla fenomenologia del tradimento ha scritto pagine esaustive.
Tralasciando i succitati argomenti peccaminosi entriamo nel vivo di un tema scottante. La parola turismo, che appare così piana, innocua, porta con sé fiumi di distinzioni e idiosincrasie. Il nostro vogherese preferito, Alberto Arbasino, ci descrive una turista, che lui forse ammira e vorrebbe emulare: «Ma noi flaneurs non vogliamo sempre girare (vero?) come quell’elegante signora degli anni Sessanta che si era messa i tacchi alti perfino all’Hermitage di San Pietroburgo, e presto stanca aveva sviluppato la strategia di precedere il gruppetto gettando in ogni nuova infilata di sale per avvertire “di qua non c’è niente!” – e magari c’erano i Rembrandt».
Uno scrittore, un giornalista, è difficile che riesca a dedicarsi al turismo a cuor leggero. Come Kurt Vonnegut girò la Russia con un amico e ci trovò “un mucchio di sfondi autentitici per storie truccate che scriverò in seguito”, così noi viaggiamo con l’occhio sempre sul chi va là, pronto a cogliere anomalie, schifezze vere e proprie, distorsioni. Uno per tutti, Luciano Bianciardi descrisse così la delusione dello scrittore di fronte ai luoghi cloroformizzati: “Casablanca non mi piace. E’ una città europea, abbastanza anonima. Non c’è traffico di droga. Non c’è prostituzione visibile. Neanche una coltellata. Non un marinaio ubriaco. Nessuno si ricorda chi fosse Humprey Bogart. Manca George Raft. Si limitano a rubarti la roba dalla macchina. Neanche la macchina intera”. Ma ce n’è per tutti, non solo per i turisti scrittori. Provate a pensare al disagio di un provinciale innamorato della donna più bella del paese, in vacanza in uno di quei luoghi frequentati solo da donne di bellezza abbacinante, vuoi la Costa Smeralda, vuoi Saint Tropez oppure Miami con tutte quelle stangone dalle forme perfette oltreché Carlo Rossella. Si rischia di provare le medesime sensazioni, o rivelazioni, così ben descritte dall’immortale Balzac: “In provincia non ci sono da fare scelte né paragoni: l’abitudine a veder sempre le stesse facce dona a queste una bellezza convenzionale. Una donna che viene reputata graziosa in provincia, a Parigi passa inosservata perché la sua bellezza consiste tutta nell’applicazione del proverbio: Nel regno dei ciechi, ogni orbo è re”. E continua così: “Benché il volgo non ammetta che i sentimenti cambino bruscamente, è certo che fra due amanti la separazione è spesso più rapida dell’unione. Si preparava nella signora de Bargeton e in Lucien un disincantamento reciproco la cui causa era Parigi”. Ma non è finita: “Osservando queste graziose inezie di cui non sospettava l’esistenza Lucien scoperse il mondo delle futilità necessarie. Più ammirava quei giovanotti dall’aria felice e disinvolta, più aveva coscienza della sua aria strana, l’aria di un uomo che non sa dove porti la strada che percorre, che non sa dove sia il Palais Royal, quando ci passa accanto, e che domanda dov’è il Louvre a un passante per sentirsi rispondere: “Ci siete”. Al Palais Royal, dove la sua futura eleganza si trovava sparsa in dieci botteghe”. Diciamolo: Carlo Rossella, una simile ingenuità, non potrebbe mai averla commessa.
O, odio e, dimenticavo… onanismo (certo, esiste pure tale attività, ma eviteremo di diffonderci sull’argomento lasciando che ciascuno la pratichi secondo le sue esigenze e i suoi desideri, che contrariamente a quanto si potrebbe credere – estate, vacanze, disponibilità sessuale ad ogni cantone – con tutto questo tempo libero, potrebbero persino accrescersi).
Torniamo dunque all’odio, tema su cui siamo – ahinoi – ferratissimi. Celine, lamentandosi della mancanza di portinaie a New York, si esibisce in una tirata virtuosa sulla grandiosità di questo sentimento: “Le portinaie che abbiamo noi, che l’anno sia buono o cattivo, ammettiamolo, forniscono a quelli che sanno come prenderlo, e scaldarselo tenendolo sul cuore, un odio che ci puoi fare tutto a basso prezzo, sufficiente a far saltare un mondo. A New York ci si trova spaventosamente sprovvisti di questo pimento vitale, tanto meschino e vivo, indispensabile, senza il quale lo spirito soffoca e si condanna a fare maldicenza in modo vago, a farfugliare pallide calunnie. Niente che morda, vulneri, incida, tormenti, ossessioni, senza una portinaia che venga puntualmente ad aggiungere all’odio universale il fuoco dei suoi mille incontestabili dettagli”. Tralasciando tutto il filone dell’odi et amo, Catullo Ovidio Properzio e via liricheggiando, per completezza d’informazione citiamo un’intervista a Giancarlo Menotti, che mette in luce l’aspetto rasserenante dell’odio, il suo risvolto eticamente positivo: “L’amore è possesso, oppressione, ingiustizia. L’ideale sarebbe non amare nessuno, quindi amare tutti. L’amore divide. Durante la guerra, a New York, mi chiesero di fare della propaganda antifascista. Mi trovai con un gruppo di italiani che avevano un grande odio per Hitler e Mussolini. Questo li univa. Io mi dissi: Strano, l’odio unisce più dell’amore”.
Che dire, si è proprio trattato di un porco agosto. Ma se non sono porche, le cose non ci piacciono. E quindi non possiamo che augurarci, augurarvi, che ogni anno a venire porti con sé il suo sano, dissoluto, a tratti disgustoso, mese d’agosto. Per chi poi avesse dei dubbi sull’opportunità di ripetere, l’anno prossimo, le vacanze con la medesima persona, ecco una riflessione di Woody Allen: “Siamo stati un bel pezzo a litigare, a scannarci, e alla fine abbiamo deciso che sarebbe stato meglio prenderci una vacanza o divorziare. Ne abbiamo discusso pacatamente, da persone mature, e abbiamo optato per il divorzio, poiché potevamo spendere solo una certa somma. Eppoi ,una vacanza alle Bermuda dura due settimane, laddove un divorzio dura tutta la vita”.