Quando capita una storia così, gli sceneggiatori e gli spettatori si avviliscono. Perché non possiamo produrre un House of Cards italiano? Con i cosiddetti “festini gay” che ancor oggi – mentre il mondo gay è ultrarappresentato su tutti i canali televisivi e nelle primarie attività imprenditoriali – possono invece valere come arma politica per far fuori il nemico, con Grindr come meeting point e nodo di smistamento delle vite più peccaminose – dai parroci ai leghisti -, con le droghe liquide e cristallizzate, con i retroscena, le interviste depistanti, le trappole, e con gli orchi che si fanno pecore, con i servizi deviati, con il narcotraffico. Sai che storia! Ci terrebbe incollati agli schermi, se solo avessimo attori grandiosi anche nel martirio, alla Kevin Spacey.
I produttori italiani invece tirano un sospiro di sollievo. Per fortuna che è successo nella realtà, perché chi mai avrebbe il coraggio di produrre simili intrecci, vicende in cui si annidano tutti gli allarmi che si possano sommare in una carriera produttiva? Ci sono i gay nell’armadio e gli omofobi, e vabbe’, ma sono tutti compagni di partito al governo, uniti nel comune ideale della lotta al decreto Zan, all’immigrato, alla droga e agli spacciatori. E poi ci sono i rumeni forse rom, immigrati da demonizzare e magari, in segreto, da scopare, povere vittime o invece strumento di oscure forze devianti (servizi segreti? Er piddì? La corrente Pillon/Family day alleata a Zaia? Narcotrafficanti indispettiti dai tweet?). No, no, è meglio che questa sceneggiatura resti sulle pagine dei giornali. Che poi, se una storia così l’avessimo vista al cinema, l’avremmo considerata credibile? Con tutta la brava e buona gente mobilitata per il decreto Zan, improvvisamente a dare del frocio al filosofo Luca Morisi, dimentica del proposito di non usare mai più la parola con la f?
E poi i dettagli: non siamo tra borghesi capricciosi e assassini, nella Roma periferica dagli stranianti nomi di strade e quartieri – l’Infernetto, Casal Bruciato, Tor Tre Teste -, come nella vicenda meravigliosamente raccontata da Nicola Lagioia in La città dei vivi. Non siamo nella neo-Milano da bere, quella ultramilionaria, eccitata e spietata di Terrazza sentimento. Siamo invece nella crassa provincia lombardo veneta. Tutto si gioca nelle paludi del web e nei pochi chilometri pianeggianti e zanzarosi che dividono Mantova da Verona, nelle terre di pesci siluro, di carpe e pesci gatto, di “allevamento capponi”, di sorbir d’agnoli. E di rondò e rotatorie e centri commerciali sotto il cielo giallino, nell’umidità e nella calura appiccicosa della metà di agosto. Nell’ennesima lottizzazione di case e cascine che non trovano più un solo ricco che voglia accollarsele, perché i ricchi ormai vanno a Capri o in Grecia, altro che villeggiare nel piattume che odora di letame suino della campagna irrigua e densa di allevamenti, nelle province italiane a maggior concentrazione di maiali pro capite. Il predatore Morisi, insaziabile nella creazione di allarmi sociali, con la sua frangetta che tanto ricorda il volto della figlia di Fantozzi, è un omino che nel web e in Salvini ha trovato come saziare la sua dose di aggressività congenita, in lui particolarmente sviluppata.
Il rumeno (sarà razzista definirlo così?), soi disant modello in vendita per via della crisi da Covid, ha incastrato il predatore da tastiera mantovano (sarà provincialista definirlo così?), uno che ci ha subito fatto pensare alle parole di Cesare Garboli riguardo a Dom Juan. Da un lato abbiamo il personaggio leggendario consegnatoci da Tirso de Molina, incapace di accogliere la parte femminile del proprio animo – la odia ma non la può sopprimere perché ucciderebbe sé stesso -, e allora cerca di eliminarla fuori da sé, nelle donne che incontra. Dall’altra abbiamo il povero Morisi, incapace di sopprimere la propria parte edonista, distruttiva, deviante, e così cerca di ucciderla metaforicamente via tweet. Garboli definisce questa poco invidiabile situazione “zuffa fisiologica”, e aggiunge che Don Giovanni è profondamente omosessuale perché riesce ad amare solo la propria parte maschile, l’unica che non sia misteriosa. E così Morisi: è trasgressivo rispetto ai valori della paciosa e ben nutrita borghesia mantovana, che sicuramente ha introiettato e gli appartengono, ma conosce anche questo suo versante eterodosso, non lo ama, non può ucciderlo dentro di sé perché ne morirebbe, e quindi lo combatte negli altri, per interposto Matteo Salvini. E allora giù con insulti sessisti (dalla Boldrini alla Bernardini), con demonizzazioni degli immigrati&spacciatori, con la violenza verbale. Avrebbe potuto andare avanti così all’infinito, sentendosi protetto dal potere del suo capo, ma è evidente che, come nel caso di Grillo, la notizia silenziata e poi esplosa al momento debito è il segnale che il combattuto Morisi è vittima non solo di sé stesso ma dell’attacco sferrato all’animale morente, quel Matteo Salvini che ha perso il tocco magico e non interessa più a nessuno.