Camilla Baresani

Sommario

La lingua vissuta e l’italiano letterario a 150 anni dall’Unità d’Italia

- IDEM - n° 2 - Storie

150 anni di un’unità d’Italia spesso forzata, malriuscita, zoppicante: nel sentire comune prima ancora che nella concretezza dei risultati. Una mancanza d’orgoglio, una non voglia di appartenenza, un accentuare le differenze per esaltare la propria specificità. Eppure, se guardiamo alla letteratura italiana, così come viene selezionata e offerta dal mercato editoriale, dovremmo ribaltare questa percezione di fallimento. Il successo di romanzi pseudo dialettali abbondamente comprati e letti in tutta Italia, anche ben lontano dalle regioni di appartenenza, è un sintomo palese. Dimostra che l’unità è fatta, che non c’è più bisogno di imporre dall’alto una lingua condivisa; dimostra che ci si sente italiani al di là dell’inflessione, della parlata, del vernacolo. La comunità dei lettori è ormai in grado di non aver paura della varietà linguistica degli altri italiani, e ha una coscienza identitaria salda, curiosa di osservarsi in ogni sua varietà espressiva.
150 anni fa, solo il 2,5 per cento degli italiani parlava la lingua ufficiale del nostro paese, un toscano edulcorato calato dall’alto per imposizione burocratica. Tutti gli altri si esprimevano in dialetto. È famosa una constatazione dello storico e filologo Pietro Camporesi: “Bisogna riconoscere che La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi”. Si riferiva al boom editoriale del libro di ricette dell’Artusi, pubblicato per la prima volta nel 1881 e venduto, ristampa dopo ristampa (oggi siamo alla centotrentesima edizione) in oltre un milione di copie. Scritto in un italiano di impronta tosco-romagnola, quel ricettario ebbe la funzione di portare anche al livello dei gourmet e delle cucine di casa una lingua standard da condividere (come più tardi ha fatto la televisione), oltre che informazioni e piatti della cucina di tutte le regioni d’Italia. Il progetto dell’Artusi fu quello di educare gli italiani a provare curiosità per usi, preparazioni e materie prime di ogni angolo del Paese. Una funzione divulgativa, dunque, che promuovesse la particolarità all’interno di un contesto di comune appartenenza italiana, tramite un linguaggio standard, in cui stemperare la paura del diverso tipica del localismo di un paese appena formato.
Molti anni dopo, nel 1964, Alberto Denti di Pirajno, curiosa figura di scrittore, medico e gourmet scrisse nell’introduzione a Il gastronomo educato, un suo libro di ricette nazionali e internazionali: “L’italiano, congenitamente provinciale e conformista per pigrizia mentale, anche nel campo della gastronomia evita di uscire dall’ambito delle sue esperienze quotidiane… C’è chi trova troppo ampio l’orizzonte gastronomico nazionale, e ritiene in buona fede che nel mondo esista soltanto la cucina della propria provincia o della propria città. Incontreremo perciò Sardi che ci racconteranno di aver corso rischi mortali assaggiando l’abbacchio romano; Bolognesi che negano ogni pregio ai tortelli di Parma; buongustai di Catania che arricciano il naso sentendo parlare della caponatina come la si prepara a Palermo”. Nell’Italia di oggi, cinquant’anni più tardi, chiunque è invece orgoglioso della ricca varietà gastronomica del Paese, del suo patrimonio ormai ampiamente condiviso di cucine regionali. La diversità non fa più paura: è divenuta un fattore  coesivo. E, tornando al campo linguistico, non è forse un sintomo di unità il successo commerciale di tanti autori che si esprimono in un idioma volutamente dialettale, un vernacolo molto lontano da quello di Franco Brevini, nel suo bel saggio La letteratura degli italiani ha denunciato come il “precocissimo fissarsi nella lingua toscana” della nostra lingua letteraria, l’artificiosa adozione di “toschi modi” anziché di un “sermon natio”?  Da Camilleri a Niffoi, da De Silva alla Murgia, la narrativa che oggi ha successo commerciale non deve più vergognarsi della propria lingua locale e spontanea, ne fa anzi un punto di forza. I lettori italiani vogliono leggere autori italiani che raccontino in modo espressivo e verace cosa succede nelle vite e nelle strade delle loro province, così come da uno scrittore scozzese ci si aspetta che scriva la propria opera letteraria con realistiche inflessioni locali e non in un inglese standard, ingessato e noioso. Secondo Brevini, la letteratura italiana è nata con un grave vizio di fondo, cioè l’aver puntato su “un’universalità conquistata liberando la pagina da tutti i tratti che la ancorassero alle concrete aree da cui nasceva… Le articolate realtà della penisola sono state respinte in una perifericità senza riscatto, appannaggio di esperienze minori come quelle dialettali, mentre il centro del sistema è stato occupato da un modello astratto e pseudounitario consegnato a una lingua sempre più anchilosata dall’ esclusivo uso letterario”.
Condividendo la tesi di Brevini ci si potrebbe dedicare all’analisi di quanto abbia nuociuto agli intenti dei nostri autori del passato l’uso di una lingua letteraria adatta a esercizi calligrafici, a saghe da mausoleo, a pur splendidi racconti divaganti di stampo rondista, e mai alla quotidianità corrosiva e rivoltante, che destabilizza e sovverte il senso comune. L’individualità di uno scrittore è messa a dura prova nel momento in cui si piega ad adottare una lingua seriale, priva di invenzioni e dunque inadatta a far esplodere l’ovvio che si annida nella testa del lettore. Una lingua che mal si presta a servire l’obiettivo di molti autori, soprattutto di quelli più ambiziosi (e meno commerciali): offrire prospettive irritanti, cioè quelle idee e sensazioni proficue, quei disvelamenti di altri lati della medaglia che il lettore più addomesticato all’ovvio non vorrebbe né cercare né trovare. Se questo è il quadro del nostro passato, il presente recupera invece in una prospettiva unitaria tutte le particolarità dialettali e gergali, mentre la comunità dei lettori mostra di apprezzare l’irruzione di una lingua meno algida senza però mettere in dubbio che di italiano si tratti. Non mancano naturalmente esiti malriusciti e storture. In certi casi particolarmente infelici, l’italica attitudine letteraria a svolazzi e grevi lirismi risulta addirittura accentuata dalla nouvelle vague linguistica. Se alcuni autori hanno guadagnato in fluidità e corrosività, altri si sono seduti sull’inventio linguistica, depotenziando l’effetto dei contenuti in favore di un insopportabile manierismo localistico. E in molti casi il recupero di una tradizione dialettale, legato a trame con ambizioni metastoriche, spesso ambientate in un passato rurale, suonano ben più posticce e artificiose del linguaggio contemporaneo urbano, ormai fatto più di contaminazioni provenienti da altre lingue che di dialetti. Che poi, a ben vedere, è la sfida dell’apertura al meticciato linguistico la prossima prova su cui misureremo la riuscita e la contemporaneità della letteratura italiana. Ma non ci sarà bisogno di fare il punto tra 150 anni, perché questo confronto con gli altri linguaggi si gioca qui e ora. L’obiettivo è dare maggior spazio alla voce letteraria degli italiani che, pur tenendo alla propria identità e non volendo assolutamente annacquarne i tratti distintivi, si sentono parte del mondo fuori dai propri confini; senza dimenticare i neoitaliani che solo da poco hanno iniziato a esprimersi nella nostra lingua.