Lo slogan più diffuso all’inizio del confinamento è stato “Andrà tutto bene”. Appeso ai balconi, incollato su porte e vetrine, dilagante nei profili di Instagram e Facebook, l’avevano adottato adulti di umore positivo, commercianti speranzosi, genitori costruttivi. Man mano, nel trascorrere delle settimane e nell’incertezza che montava, lo slogan è stato soppiantato. Si strappava e scoloriva non solo sulle porte ma anche nelle nostre menti. Iniziava a dilagare la sua antitesi: “Andrà tutto male”.
Nel chiuso delle nostre case, dove ogni giorno subivamo elenchi funesti, nuovi morti e nuovi contagiati, rimuginando su adeguatezze e inadeguatezze di uomini di governo non solo italiani, mentre cominciavamo a venire personalmente toccati dalla lista dei contagiati – c’era ormai sempre qualcuno che conoscevamo, un parente, il nonno di un amico, o anche solo una persona che ci faceva simpatia, il proprietario della pasticceria all’angolo -, man mano che la lunga teoria dei negozi chiusi ci dava un senso di smarrimento pensando a chi vi aveva investito tutte le sue energie e speranze, e mentre la coppia di vicini del piano di sopra litigava furiosamente accusandosi senza tregua di ogni nefandezza, ecco affiorare i dubbi esistenziali: questa situazione imprevedibile e catastrofica ci donerà una nuova cultura civica, ci renderà più buoni e virtuosi, meno spreconi, pronti a venire in soccorso di chi avrà perso tutto e non riuscirà a rialzarsi, oppure le difficoltà da un lato, e la gioia di rialzare la testa dall’altro, ci faranno ricominciare più cattivi e più egoisti di prima? Viene in mente il titolo di un romanzo di Peter Cameron, quasi un motto: Un giorno questo dolore ti sarà utile. Guardandoci alle spalle, tra qualche anno, potremo dire di aver tratto qualcosa di utile dai danni della pandemia? Questo dolore ci sarà utile? Sui principali giornali del mondo abbiamo letto un gran numero di interventi di celebri intellettuali che, raccontando la propria trasformazione, il senso di vuoto provato, la necessità di contatto con i propri simili, ci facevano pensare che forse saremmo diventati più caritatevoli, non concentrati sul consumo ma sulla condivisione. Abbiamo buttato oggetti inutili, scoperto che avevamo troppi vestiti, troppe scarpe, troppi oggetti da spolverare, che nella nostra vita pre-Covid 19 avremmo potuto comprare di meno e donare di più. Altri intellettuali, più cinici, hanno invece vaticinato un futuro prossimo di lotte, di spietatezze, di incarognimento collettivo in una sorta di mors tua vita mea. Tra i “cattivisti”, lo scrittore francese Michel Houellebecq, che indubbiamente ha tra le sue caratteristiche quella di saper anticipare l’andamento della società (basti pensare al suo ultimo romanzo, Serotonina, che prefigurava con un anno d’anticipo le gesta dei Gilets jaunes).
Tuttavia, se invece del breve periodo vogliamo immaginare movimenti sociali più prolungati e decisivi, ci sono d’aiuto le teorie di Pëtr Kropotkin. Scienziato e intellettuale russo dell’era prerivoluzionaria – fu uno dei padri fondatori dell’anarchismo – in un suo saggio ora provvidenzialmente tradotto (Il mutuo appoggio, un fattore dell’evoluzione), propende per una visione ottimistica del senso di responsabilità della nostra specie. Interpreta l’aspetto sociale della teoria darwiniana non come viene correntemente intesa, cioè come spietata evoluzione che condanna i deboli all’estinzione, bensì in modo opposto. Il mutuo appoggio è il motore che ha permesso agli uomini di migliorare collettivamente le condizioni di vita. La cooperazione è quella che ci consente di non vivere come primitivi, continuando a sviluppare in modo virtuoso il nostro processo evolutivo.
Per stare meglio, bisogna stare tutti meglio. È una considerazione lampante, la cui evidenza purtroppo di frequente passa sottotraccia. Ma ancora una volta possiamo affidarci alla grande letteratura. In un brano straordinariamente adattabile al momento che viviamo, Herzog, il protagonista dell’omonimo romanzo di Saul Bellow pubblicato nel 1964, riflette sulla propria condizione mentre aspetta che Ramona, la sua amante, si spogli: “Be’, per esempio, che cosa significa essere un uomo. In una città. In un secolo. In transizione. In una massa. Trasformato dalla scienza. Sotto il potere organizzato. Sottoposto a tremendi controlli. In una condizione determinata dalla meccanizzazione. Dopo il recente fallimento di speranze radicali. In una società che non aveva niente della comunità e che svalutava l’individuo. A causa della moltiplicata potenza dei numeri che rendevano l’io trascurabile. …”.
Leggete la risposta che Herzog si dà, subito prima di fare l’amore con Ramona: “Negheresti tu agli innumerevoli esseri umani il diritto di esistere? Gli chiederesti di faticare e soffrire la fame mentre tu ti godi deliziosi Valori vecchio stile? Tu — tu stesso sei figlio di questa massa e fratello di tutti gli altri. Oppure sei un ingrato, un dilettante, un idiota”.