Le telecamere inquadrano una ragazza seduta accanto al marito. Sono sposati da 7 anni, dicono, all’epoca erano due diciannovenni che non sapevano nulla del sesso. La telecamera ora inquadra la mamma della giovane, una cinquantenne boccoluta, smilza, col seno prominente. È preoccupata che la vita sessuale della figlia non sia eccitante. Perciò, in tono ciarliero, consiglia agli sposini di buttarsi su “giochi di ruolo tipo infermiera e dottore”, da integrare con il 69. Prima di sferrare un nuovo consiglio chiede al genero se gli piacciano le scarpe sexy. Sì che mi piacciono, risponde lui con un mezzo sorriso. Gli sposi però vorrebbero cambiare argomento, o quanto meno tono: sono visibilmente imbarazzati.
“Che ne dici se la porto fuori a cena?”, chiede allora il genero alla suocera, cercando di spostare la conversazione su livelli più ineffabili.
E lei: “Personalmente, quando sono piena preferisco, non fare sesso. Quando hai mangiato troppo è difficile mettere in bocca altro. Non so se hai capito…”, risponde tutta ammiccante.
È una pochade? Un porno soft? Sbagliato. Siamo alla prima scena della prima puntata di un reality per famiglie, My Unhortodox life, trasmesso da Netflix. Lo scopo ufficiale delle 9 puntate della prima stagione, almeno nelle dichiarazioni della protagonista, la mamma che evita il doppio pasto, sarebbe quello di ispirare gli esseri umani a sentirsi liberi, a non vergognarsi dei desideri sessuali, e così facendo poter poi rendere al massimo in ogni campo, ossia nel lavoro, nel fare squadra per raggiungere il successo, nel produrre reddito.
Lo scopo occulto, invece, sembrerebbe essere la promozione di mamma Julia Haart e della gloriosa agenzia internazionale di modelle Elite, acquistata da Silvio Scaglia nel 2013, e di cui dal 2018 è amministratrice delegata. Questo nome, Silvio Scaglia, è il motivo per cui abbiamo visto tutte e 9 le puntate, in un misto di straniamento e morbosità. Chi ha seguito le vicende imprenditoriali, finanziarie e giudiziarie italiane degli ultimi vent’anni, sicuramente conosce il suo nome. Per chi non ne sapesse nulla, tra poco forniremo le opportune spiegazioni.
Torniamo ai vibranti consigli di Julia Haart alla figlia primogenita Bathseva e al genero Ben, consigli che per tutto il reality show verranno diretti anche agli altri figli: al secondogenito Shlomo, studente di legge, alla terzogenita Miriam, sviluppatrice di app, lesbica o forse bisex, e al quarto, Aron, adolescente religioso con tendenze fondamentaliste, oltre che al principale collaboratore e amico di Julia, Robert Brotherton, gay al momento asessuato, unico della compagine dotato di sense of humor e gusto del paradosso.
Julia è stata un’ebrea ortodossa. Nata in Russia nel ’71 con cognome Leibov, è sfuggita alle cupezze sovietiche della stagnazione brezhneviana al seguito dei genitori, approdando da infante in un campo profughi di Roma. È lì che riceve in regalo la sua prima borsetta, da allora appassionandosi alla moda. Approda poi negli States: a 3 anni è ad Austin, Texas, sinché, sempre al seguito dei genitori, giunge a Monsey, popolosa enclave chassidica a nord di New York. Colà, tutta un’efferata esistenza femminilpenitenziale, parrucca e gonnellone, maniche lunghe, vietato ballare davanti ai maschi, vietato andare in bicicletta, vietato studiare, vietato tutto. A 19 anni, matrimonio combinato con un tizio mai visto prima, il signor Yoseph Hendler, con cui Julia genera quattro figli. Tutto già scritto e preordinato, fino alla depressione, all’anoressia, al desiderio di suicidarsi, e infine a 42 anni la fuga verso Manhattan, portandosi dietro la figlia Miriam ancora bambina, e mollando giocoforza gli altri tre al marito. Miccia scatenante la fuga sono i divieti e le angherie educative cui era sottoposta la piccola Miriam. Vabbe’, sin qui saremmo nel “filone ebrei ortodossi”, che televisivamente parlando è quello più trendy. Se ci fate caso, abbiamo avuto il mainstream minaccia terroristica (da 24 a Homeland, e giù per li rami), abbiamo avuto il filone storico in costume (da Downton Abbey a Bridgerton) e ora siamo in pieno filone comunità fondamentaliste, meglio se chassidiche (da Shtisel a Unorthodox, non dimenticando però gli Amish di Breaking Amish e le musulmane di Ethos). In pratica, My Unortodox life coglie appieno quella che Walter Benjamin, riferendosi però alle opere letterarie, definì “l’ora della leggibilità”. Queste 9 puntate rappresentano il punto in cui il macrogenere incontra il sottogenere, ovvero la deriva pop del filone ortodossia, un ibrido sfavillante di potenzialità dove, come usa dire nel linguaggio promozionale, Keeping up with the Kardashians meets The Osbournes ma anche The devil wears Prada, oltre a Unorthodox.
Dicevamo della passione della piccina profuga per le borsette, soppiantata poi in età adulta da quella per le scarpe. Nel suo cominciare da zero la vita di donna libera, con il nuovo nome di Julia Haart, la nostra protagonista si dedica al design di scarpe altissime, col tacco furibondo supportato da un plateau, insomma qualcosa che aggiunga 15 centimetri alle piccolette smilze come lei. A un colloquio di lavoro, incontra Silvio Scaglia, e qui torniamo al motivo che inizialmente ci aveva spinto a vedere la serie. Chi è Silvio Scaglia, che interpreta sé stesso in tutte le 9 puntate di My Unorthodox life? Manager studioso e genialoide, fondatore nel ’99 di Fastweb assieme a Francesco Micheli, Scaglia è stato il primo unicorno italiano, parte dello 0,000006 per cento mondiale di fondatori di start up che, nell’arco di 7 anni, riescono ad accrescere la valutazione di mercato fino ad arrivare al miliardo di dollari. Indicato nel 2003 da Time come una delle personalità più influenti nel mondo delle tecnologie, nel 2007 Scaglia vende le sue quote di Fastweb a Swisscom e, anziché buttarsi nella vita smargiassa, continua a comportarsi secondo l’abituale profilo giansenista: i figli frequentano scuole pubbliche, veste anonime grisaglie, “non ha mai avuto una macchina tedesca”, come ci riferisce un suo stretto conoscente, possiede un appartamento non a Sankt Moritz o a Courmayeur, come i milanesi doviziosi, bensì nella sobria Champoluc, pratica sci di fondo, la moglie è la stessa di sempre, entrambi sono credenti. Ma il destino è in agguato. Appena incassati i proventi della vendita di Fastweb, Scaglia finisce nelle attenzioni della magistratura e diventa vittima di uno di quei pazzi procedimenti giudiziari all’italiana, quelli dove se ti va bene esci stralunato, se ti va male ti viene il cancro. Lo indagano per “associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale” riguardo agli anni in cui era AD di Fastweb. Nel 2010 viene arrestato su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia. A quel punto, Scaglia non viveva più in Italia, aveva fondato a Londra Babelgum, una delle prime webtv con contenuti on demand. Ma dignitosamente, lealmente, torna in Italia per mettersi a disposizione degli inquirenti. Lo trattengono in carcere per quasi un anno. In cella con un cinese, si mette a studiare il cinese e lì, dietro le sbarre, ha intuizioni di cui vi diremo. Scarcerato, va ai domiciliari, e decide di passarli in montagna, nell’appartamento di Champoluc, dove ottiene di percorrere quotidianamente un anello con gli sci di fondo, continuando a studiare. Nel 2013 viene infine assolto con formula piena, assodata la sua “totale estraneità ai fatti”. Nel 2017 anche la Corte d’Appello confermerà l’assoluzione di primo grado. Ma a quel punto il Silvio Scaglia che vi abbiamo fin qui descritto, il borghese minimalista è già diventato un altro, folgorato da Julia Haart. Torniamo però alla cella e al cinese compagno di sofferenze. Dietro le sbarre Scaglia intuisce che il futuro è in Oriente. La moda e la sua rappresentazione sono troppo basati sull’iconografia della top model bianca, laddove il mercato invece si sta spostando a est. Compra dunque la partecipazione di maggioranza di Elite World, un network di agenzie di moda. È il marchio mondiale più famoso del settore, fondato nel ’72 a Parigi da John Casablancas. L’idea di Scaglia è quella di cambiare i fondamenti promozionali del mondo della moda buttandosi su modelle orientali. Nel 2013, già che c’è, compra all’asta anche l’azienda di lingerie La Perla a soli 69 milioni. Vuole rilanciarla e salvare i posti di lavoro. Ed eccoci al magico incontro. Durante un colloquio per la posizione di designer di accessori, Scaglia conosce Julia Haart. Lei ha il suo marchio di zatteroni, è però fissata con la lingerie. Vuole crearne di ultra sexy ma anche comoda. Scocca la scintilla. Il serio, compassato, anonimo Scaglia inizia la sua transizione: non sarà un cambio di sesso, ma sarà altrettanto sorprendente. Lascia la moglie e i figli, e inizia la sua nuova pazza vita superesposta, tra balli, canti, nuovo matrimonio su un’isola greca, profili Instagram che raccontano vite doviziose e abiti sempre oltre il limite del kitsch (perlomeno secondo il gusto lombardo), lasciando esterrefatta la comunità finanziaria milanese, imbustata nei suoi abiti classici, con i suoi spostamenti sull’asse Milano-Londra, i matrimoni mediamente solidi. Il Silvio pop attira critiche ma anche nascosti entusiasmi (“E se stessi sbagliando tutto io?”, si chiedono alcuni vecchi amici). Di fatto, traccia la linea che poi verrà seguita da Jeff Bezos: mollare la moglie sobria e larvatamente bella, togliere giacca, camicia e cravatta e indossare solo Tshirt che mettono in mostra la muscolatura, legarsi a una donna di carattere volitivo e dominante, dalle forme visibilmente, provocatoriamente, sexy.
E poi basta nascondersi, evviva la ricchezza, e dunque barche, aerei privati, elicotteri, tutto nella “linea Bruganelli”. Se li hai, se te li sei guadagnati, spendili ‘sti soldi, non vergognarti, mostrali. Nel frattempo, Silvio innamorato e magnetizzato dalla determinazione di Julia Haart, la nomina addirittura direttore creativo di La Perla. Nel reality lei citerà più volte questa sua esperienza, senza però dire che è un dono del marito e che il risultato è stato largamente fallimentare. Julia pensa in grande, laddove il re del settore, Sandro Veronesi, abbatte i prezzi con i marchi Intimissimi e Tezenis. La magniloquente strategia di sviluppo crea un buco che supera di gran lunga l’investimento. Nel 2017, dopo la cura Scaglia/Haart, e un investimento di 350 milioni, l’azienda perde 180 milioni su un fatturato di 130. Nel 2018, Scaglia cede la società a un finanziere tedesco. Però, innamorato e convinto della bravura di sua moglie, e ormai trasferito a New York, si dedica a una sua nuova creazione, una piattaforma per investimenti finanziari, e nel 2019 mette alla guida di Elite World Group la sua Julia. Ed eccoci, dopo tutte queste premesse torniamo finalmente a My Unorthodox life.
Siamo dunque nella “Haart penthouse” di Tribeca, quartiere simbolo del newrichismo newyorchese. Oltre che abitazione della coppia Scaglia Haart (sempre nell’ordine delle vicende strabilianti per i milanesi, c’è che Scaglia ha assunto come secondo cognome quello della moglie), l’enorme appartamento (si favoleggia che Silvio l’abbia pagato 80 milioni di dollari) è il set del reality. Qui, la Haart impartisce le sue lezioni di vita a figli e collaboratori, lezioni che includono l’uso di vibratori che vanno sempre tenuti in borsetta e messi in valigia togliendo la batteria, altrimenti all’aeroporto non li lasciano passare, qui entrano ed escono figli, fidanzati e mariti dei figli, collaboratori, l’ex marito che vive a Monsey, Silvio Scaglia… Insomma, l’appartamentone è molto protagonista anche perché simboleggia il benessere che si può raggiungere perseguendo la libertà. E all’interno della penthouse, protagonista assoluta è la cabina armadio, dove un meccanismo di girelli elettrici tipo quelli delle tintorie fa ruotare il guardaroba di vestiti e scarpe di maman, ingolosendo figli e collaboratori. Gran parte delle scene si svolge davanti all’armadio girello, totem dei momenti introspettivi e risolutivi, proprio come un tempo le scene topiche si svolgevano in cucina o davanti al focolare crepitante. Julia, va da sé, dispone di un guardaroba griffatissimo e sconfinato, anche se poi i capi che lei e le figlie sembrano portare con maggior accanimento sono, estate e inverno, shorts inguinali e corpetti. Un economista come Serge Latouche, con la sua fissazione sulla decrescita e la demonizzazione del produttivismo in favore di una dimensione più spirituale dell’uomo, dev’esser visto in quell’attico di Tribeca ancor peggio dei peggiori elementi fondamentalisti di Monsey.
Ma ricapitoliamo: Julia è scappata 7 anni prima da Monsey, la comunità chassidica oppressiva. La 19enne Batsheva invece di seguire la madre è rimasta e si è sposata, e solo adesso sta facendo la transizione dalla vita frugale dell’enclave ortodossa di Monsey alla vita consumistica degli attici di Manhattan. Anche il figlio Shlomo è sul ciglio tra la vecchia vita e la nuova e, benché abiti a Manhattan e viva tutto il giorno lavorando con la mamma, il sabato non prende l’ascensore e non accende la luce. Solo il quattordicenne Aron, rimasto a vivere a Monsey col padre, crede ancora che le donne siano il diavolo (“Ma sono metà della popolazione!”, sbotta Julia amareggiata), vuole frequentare scuole maschili, non guarda la tivù.
Ma eccoci alle irrisolte contraddizioni del plot autobiografico: se la sceneggiatura ci mostra Batsheva, la primogenita, che lotta col marito per poter indossare un paio di jeans, e lui le chiede tempo, perché appunto è ancora impegnato nella transizione mentale, ci si chiede: ma come, questa Batsheva è sempre a spasso con gli shorts che arrivano all’orlo delle chiappe, senza calze nelle intemperie newyorchesi, e tu rimani sotto shock perché s’è comprata un paio di jeans? Boh! E anche l’ex marito chassidico di Julia, se è così religioso e osservante com’è che partecipa alla serie, racconta via Zoom il suo amore per una nuova compagna che vuole sposare, tutto parlando a Julia e ai figli ma in favor di telecamera, pienamente partecipe della finzione e della messinscena? Del resto, anche Silvio, nella stupefazione degli amici milanesi, si mostra sotto le lenzuola con Julia, mentre la bacia con la lingua al ristorante, mentre la ascolta discettare di vibratori.
Oltre all’attico Haart, con arredi molto Casamonicastyle (mitico il lettone blu, un monobolocco tra testiera e pediera da cui fuoriesce, opportunamente telecomandato, un enorme televisore ruotante), non mancano scene nella sede newyorchese di Elite, dove si spiega che la mission di Julia, dopo quella di liberare i figli dai cascami chassidici, è quella di spingere le modelle a prolungare la propria carriera diventando influencer e designer di propri marchi di moda, sotto l’egida dell’agenzia. Quindi, essere della squadra Elite significa invecchiare in serenità, fatturando senza cadere nel dimenticatoio.
Di fatto, tutta questa parabola con Julia tipica madre ebrea dominante, versione contemporanea della matriarca insopportabile e ipervigile del Lamento di Portnoy, mette in risalto, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, la fine delle ideologie. La Haart, che nel reality parla anche del suo libro autobiografico di prossima uscita, si sente responsabile di “ispirare”. Vive per ispirare. Con il libro, con il reality, con la sua vita ispira gente ingabbiata da pregiudizi e regole: dall’archeologica militanza di destra e di sinistra all’essere testimonial di una transizione, e dunque poter ispirare reietti non ancora transitati. Aziendalismo intinto nella woke culture e adesione, forse inconsapevole, all’intuizione dell’antropologo René Girard: “L’imitazione è l’intelligenza umana in ciò che ha di più dinamico”. Il desiderio mimetico, quella triangolazione per cui noi non desideriamo un oggetto in sé ma perché altri lo desiderano e lo posseggono è la molla che dovrebbe ispirare lo spettatore a liberarsi dalle catene sociali e mentali, e diventare nel suo piccolo un Haart anche lui, possessore di cabine armadio con girello, Bentley con autista, ville agli Hamptons, eccetera eccetera. Anche l’amore e l’affetto sono continuamente parte della narrazione haartiana: Julia e Silvio, Julia e i figli, Julia e il collaboratore Robert non fanno che dirsi ti amo/ti voglio bene, seguiti senza esitazione da un ti amo/ti voglio bene anch’io, suggellato in un vigoroso abbraccio. Scrive il filosofo Alain Badiou: “La dichiarazione d’amore è il passaggio dal caso al destino”. Gli Haart vogliono strenuamente sancire l’impegno, che è non solo affettivo ma anche economico. Infatti, l’altra frase taumaturgica sempre ripetuta è: “Siamo una squadra”. E Julia ai figli: “Non c’è stato un momento in cui avete smesso di avere un ruolo nel mio grande piano di essere una famiglia di grande successo”. Argh.
Molto istruttivo anche il regalo di compleanno di Ben a Batsheva. Le organizza un pomeriggio in un’apposita struttura dove si va per sfasciare tutto, una specie di yoga al contrario. Si entra in una stanza insonorizzata, si scelgono delle mazze, e giù a sfogarsi maciullando stampanti laser e piatti. Batsheva, che fa la influencer, chiede al marito di fotografarla in azione, lui, inconsciamente stufo di essere sempre richiesto di filmare e fotografare per Instagram e Tik Tok, nella foga le sfascia anche l’iPhone. Dramma coniugale. Cui lui rimedierà organizzando un set in una piazzetta di Manhattan, con ballerini e coreografie e Batsheva al centro, il tutto filmato da professionisti del format Tik Tok. Come dire: Hey voi, maschi etero partner sentimentali di influencer, il vostro ruolo non è più quello di pagare il conto al ristorante e aprire le porte, bensì di fotografare e filmare la vostra amata nella giusta luce e con i giusti ritocchi.
In tanta melassa, a un certo punto finalmente c’è un’incazzatura. Succede che il dolce e docile Silvio, uomo dal portafoglio spalancato come nei migliori sogni di pigrizia femminile, finalmente s’adombra. Julia arriva tardi a un lunch senza rispondere al telefono perché è al telefono con qualcun altro, e poi non arriva a un appuntamento in cui deve aiutarlo a valutare un ufficio di 2000 metri per il suo fondo d’investimento. Impegnata con un investitore, Julia manda la sua assistente che regge il telefono in cui lei è presente in video.
“Non possiamo avere uno Zoom appuntamento, uno Zoom matrimonio…” inizia a recriminare Silvio.
“Ti amo”, lo interrompe lei.
“A Zoom tardi“, conclude Silvio, debellato.