La realtà è che tutti, prima o poi, finiamo nell’abbraccio della letteratura americana. Prendiamo un cittadino mediamente istruito (e solitamente parecchio illetterato), uno che abbia frequentato la scuola secondaria e forse addirittura l’università. Se è plausibile che non abbia mai avuto alcuna esperienza diretta con la letteratura spagnola o russa o tedesca, non altrettanto può dirsi di quella americana. Foss’anche un giallo, uno stupidario, un romanzo da cui è stato tratto un film, prima o poi quest’italiano avrà letto pagine di un autore americano, e lo avrà fatto volontariamente, fuori dalle imposizioni della scuola. Lo stesso può dirsi per il gran numero di antagonisti, odiatori, complottisti, antiamericanisti per militanza: chi di loro non ha approfittato e goduto di quanto l’ormai ex Nuovo Mondo gli ha offerto della propria cultura? Dall’America e dalle sue propaggini letterarie non si prescinde, e vale la risposta del celebre cartoonist Art Spiegelmann a un intervistatore che gli chiedeva come mai molti provino un sentimento duplice, di amore e odio, nei confronti degli Stati Uniti: “Li capisco eccome. Provo lo stesso per mia moglie”.
A guardar bene, molto antiamericanismo, quel genere di astio univoco di chi ha bisogno di nutrirsi di nemici al contempo granitici e impalpabili (lo Stato, la Chiesa, l’America), è alimentato dal “romanticismo dell’aggravio”, splendida definizione del pensatore tedesco Peter Sloterdijk. Ossia il rimpianto per quella durezza di condizioni e severità di costumi negateci dalla società del benessere. Con altre parole, “la barbarie del comfort”, secondo il fortunato titolo di un saggio di Michela Nacci sulle livorose reazioni della cultura francese novecentesca al materialismo della società americana. Eppure, al di là di stereotipi, paure e pregiudizi, il mainstream della letteratura mondiale è stato tracciato per quasi tutto il Novecento da quella americana, mentre negli anni Duemila ci stiamo ancora chiedendo chi ne sarà il successore. La Cina? L’India? Il Brasile? A vederlo da qui, pare molto lontano il momento in cui l’America smetterà di fornire il nostro immaginario di storie, ragionamenti, innovazioni.
Prendiamo l’11 settembre. Poche settimane più tardi, molti scrittori americani erano già al lavoro e a dieci anni di distanza non hanno ancora smesso di raccontare l’impatto emotivo e sociale dell’attentato che ha, di fatto, innescato una sorta di terza guerra mondiale. E, nel raccontarlo, alcuni hanno centrato l’obiettivo: sono riusciti a parlarci di quello che tutti siamo, anche noi italiani privi di skyline contemporanei pronti da essere odiati, e sono riusciti a darci una proiezione credibile di quello che diventeremo.
Il migliore di questi romanzi, Uno stato particolare di disordine di Ken Kalfus, usa il dramma dell’attentato e la paura dell’antrace come stratagemmi narrativi per mettere in scena una ordinaria storia di infelicità coniugale. Una mattina, l’11 settembre 2001, il marito deve andare in ufficio al World Trade Center, la moglie deve prendere il volo United Airlines 93 per San Francisco. Lui si attarda a corteggiare la maestra di uno dei figli e arriva mentre la torre dove dovrebbe essere al lavoro sta già crollando. Lei non parte, perché all’ultimo il suo appuntamento in California salta. Entrambi sperano ardentemente che il coniuge sia scomparso nell’attentato. Da lì, dalla delusione per la mancata morte della persona con cui ogni giorno sono in lotta per strappare il possesso dell’appartamento comune, dei fondi pensione, dei figli, nasce un romanzo che racconta una coppia esacerbata, impaurita e pronta a qualsiasi scorrettezza, in una plumbea New York post attentato. Una città disastrata che riflette e influenza lo stato d’animo dei due infelici.
Lo scrittore Gay Talese, inventore ancor prima di Tom Wolfe del new journalism, corrente letteraria che ha generato adepti in tutto il mondo, ritiene che la letteratura mondiale si sia americanizzata perché gli scrittori americani, per primi hanno cominciato a mettersi a nudo, costruendo storie nella cui filigrana mostravano tutti i propri vizi, difetti, debolezze (alcolismo, ipereccitazione sessuale, droghe, violenza). “Che fosse per il protagonista di uno spettacolo di Broadway che un Tennessee Williams o un Eugene O’ Neill avevano chiaramente tirato fuori da un cassetto di famiglia, o per l’alter ego in un romanzo di John Cheever o di Philip Roth, che sprecava l’esistenza tra il vizio del bere e della lussuria, il candore di questi scrittori mi metteva in soggezione quanto il loro talento letterario. E non era semplicemente questo, ma era invidia per la loro libertà, e consapevolezza che quegli scrittori si erano guadagnati un vasto consenso di pubblico mettendo a frutto la loro vita intima”.
Sfruttare letterariamente la propria vita intima è diventato uno dei due principali modi della scrittura contemporanea occidentale (la cosiddetta autofiction), mentre l’altro modo naviga tra il libro-denuncia e il giallo (la faction). Ma Gay Talese, con le sue origini calabresi e il conseguente lascito della cultura omertosa dei padri, sostiene di essere stato costretto a inventarsi il new journalism per tenersi alla larga dalle questioni private, per non essere rigettato a Little Italy. Ecco allora che per esprimersi è stato costretto a buttarsi su minuziosi reportage giornalistico-letterari, che invece raccontano le vite degli altri. Alle radici del new journalism ci sarebbe dunque non una libera scelta intellettuale ma il risultato di una reticenza espressiva. “Ero perfettamente consapevole del fatto che tra i romanzieri e i drammaturghi più famosi del paese spiccava l’assenza di americani con cognome italiano”.
Dopo la massiccia adesione di scrittori di tutto il mondo al modulo espressivo basato sull’autodenuncia e sul crudo svelamento delle proprie nequizie famigliari, la grande innovazione della letteratura americana sta da tempo nell’esser diventata la culla degli scrittori di prima generazione. Sfuggiti ai disastri del paese d’origine, ci sono molti neo-americani che, grazie alle borse di studio e ai corsi universitari di creative writing, scrivono romanzi (e serial) che guardano ai loro mondi perduti, alle loro radici, e li fondono con l’appartenenza al paese che li ha adottati. Problemi di identità religiosa, razzismi vissuti o percepiti, scontro con residui di abitudini arcaiche e tradizioni che diventano un fardello, viaggi a ritroso in identità sconosciute.
Nella letteratura americana, in cui la differenza tra un uso alto e uso corrente della lingua è vissuto con meno ansie che da noi, tutto è possibile. Ci si rinnova andando alla ricerca di stimoli e idee fuori dai propri confini, come del resto gli americani hanno sempre fatto (col viaggio di formazione in Europa), ma stavolta puntando verso luoghi d’origine cui magari si è sfuggiti solo dieci anni prima, sempre però tenendosi buona la nuova preziosa identità, quella statunitense.
No, non è possibile prescindere dall’America: che si tratti di un serial (The Wire, per esempio) o di avant pop (i romanzi di David Foster Wallace) o di satira su un concorso architettonico indetto per il memoriale dell’11 settembre e vinto da un musulmano (The Submission di Amy Waldman), i romanzi americani continuano a fornire materiale per le nostre letture preferite.