L’ossimoro più citato degli ultimi anni è senza dubbio “realtà virtuale”. E se “caos calmo”, “morto vivente”, “brivido calmo” sono ossimori che riguardano facezie comportamentali, quello della realtà virtuale richiama invece il più antico dei principi filosofici. Non c‘è bisogno di Metaverso, né di social, né di videogame per creare universi paralleli, repliche della realtà, moltiplicazioni dell’esistente. Di fatto, bastiamo noi. Dai tempi di Parmenide e Platone, passando per Kant e Schopenauer, soffermandoci su Freud, per arrivare infine alle neuroscienze, gran parte del pensiero filosofico e scientifico occidentale mira a dimostrarci come l’illusione sia la nostra vera realtà.
Quello che crediamo di vedere è solo una realtà virtuale, è cioè filtrato da ciò che il cervello vuole farci credere: il mondo è una rappresentazione, o come dicono gli psicoanalisti un’interpretazione. Il neurobiologo Beau Lotto, guru contemporaneo delle nuove correnti interpretative, nel saggio Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo (Bollati Boringhieri) scrive: “Se la domanda è ‘vediamo la realtà accuratamente?’ la risposta non può che essere no. (…) La nostra percezione del mondo è fallace”. Sostiene Lotto che l’illusione è la nostra realtà, un’illusione creata da quel poco che i nostri occhi hanno modo di vedere sommato a ciò che le nostre sensazioni e il cervello vogliono farci credere. La nostra limitata lettura del reale lo costruisce in modo distorto.
In tal modo diventa vano stabilire cosa sia più vero: le costruzioni narrative che mettono sulla pagina città immaginarie o quelle che invece pretendono di ricostruire in modo realistico la realtà? A noi lettori poco importa, l’unica cosa che ci interessa è sempre la stessa: credo a quello che leggo? Lo scrittore è riuscito a farmi sospendere l’incredulità?
Una delle città più immersive degli ultimi anni l’ha costruita Kent Haruf con la sua Trilogia della pianura, tre romanzi pubblicati dall’editore NN e ambientati a Holt, Colorado. Holt naturalmente non esiste, anche se ormai carovane di turisti vanno a cercarla dalle parti di Denver. I libri di Haruf sono stati un successo di proporzioni inimmaginabili per un editore italiano di nicchia: Benedizione, Canto della pianura, Crepuscolo, più un quarto libro, Le nostre anime di notte (da cui è stato tratto un film con Jane Fonda e Robert Redford, stucchevolmente romantico) hanno scalato le classifiche, portando il nome e il successo di questo scrittore americano persino fuori dall’Italia, così come era capitato con il Kundera di L’insostenibile leggerezza dell’essere, divenuto famoso nel mondo dopo il successo italiano. Peccato che però Kent Haruf non abbia potuto saperlo. Dopo “una vita da mediano”, è morto all’alba della pubblicazione italiana dei suoi libri, nel 2014. Prima di allora pochissimi lettori avevano avuto modo di apprezzarlo, persino negli Stati Uniti. Torniamo a questa Holt, città completamente inventata ma talmente realistica che tutti i lettori la sentono vera. L’editore ha persino corredato il cofanetto dei tre romanzi con una mappa della città, la legenda con il nome delle vie e i punti cardinali. Tutto si sviluppa tra cardi e decumani che finiscono nel nulla, dissolvendosi in una highway o nella pianura del Midwest spazzata dal vento, coperta dalla neve d’inverno e con il mais svettante d’estate, tra clima torrido e temporali improvvisi, e più in là colline, fattorie col portico e il dondolo mezzo sfondato, recinti, staccionate, cavalli e mucche al pascolo. La città si sviluppa a partire da una Mainstreet, con il diner, l’emporio-ferramenta, l’ufficio postale, le case unifamiliari di legno, le strade tutte uguali che si incrociano secondo una toponomastica senza nome, fatta di numeri, all’americana. Un luogo, o non luogo, dove “non succede niente senza che la gente lo venga a sapere. Se si vuol fare qualcosa di nascosto tocca andare in un’altra città”, che poi è Denver, l’unica raggiungibile in poche ore di viaggio. Ci si va a tentare la fortuna che poi non arriva, a nascondersi, a peccare con amori extraconiugali o omosessuali, e poi si finisce per essere comunque scoperti, e allora si torna a Holt, con la reputazione per sempre impataccata.
Pure a proposito di costruzioni narrative recenti, va citata la straordinaria impresa artistica di Frédérik Pajak. In Italia, l’editore L’Orma ha sinora pubblicato tre dei nove volumi di Manifesto incerto. Pajak s’è inventato un genere, il “saggio grafico”, ossia parole e immagini fuse in un’unica narrazione. Un po’ diario, un po’ saggio storico letterario, un po’ graphic novel. I suoi disegni a china sono struggenti, richiamano le vite in bianco e nero e soprattutto grigio dei protagonisti, autore incluso. Manifesto incerto – Sotto il cielo di Parigi con Nadia, André Breton, Walter Benjamin, il primo dei volumi della saga, ci racconta esistenze di grandi letterati e artisti del Novecento, in particolare di Benjamin, che si sviluppano in una Parigi della prima metà del Novecento funebre e al contempo onirica, come non l’abbiamo mai vista né vissuta, buia, sporca, umida, fredda, inospitale, un luogo di mera sopravvivenza. La Parigi di chi popola chambre de bonne non riscaldate, contando i centesimi, tra amori illusori, studi matti e disperatissimi, solitudini radicali.
Pajak, che è nato nel ’55, ha fatto tutti i lavori più umili, è stato così povero da trovarsi a chiedere la carità. I volumi di Manifesto incerto sono l’opera di una vita, così come la Commedia Umana lo è stato per Balzac. Scrive Pajak, per descriverci la città con le parole, oltre che con i disegni: “A Parigi, come in tutte le grandi città, gli esseri umani sono costretti a guardarsi. Non ad ascoltarsi, ma a guardarsi, osservarsi, fissarsi. Walter Benjamin cita Sociologia di George Simmel: ‘Prima dell’avvento degli omnibus, delle ferrovie e dei tram nel secolo decimonono, la gente non si era mai trovata in condizione di dover stare, per minuti e anche ore intere, a guardarsi in faccia senza rivolgersi la parola’. Sui mezzi pubblici, ma anche per le strade nei bar, è tutto uno scambio di sguardi, sostenuti o fugaci. Ci si guarda fino a distogliere lo sguardo. Ci si guarda o non ci si guarda, non solo per diffidenza, per paura o avversione, ma forse perché, al primo sguardo, tutto ci contrappone. Benjamin nota come le persone, osservandosi a vicenda, sappiano riconoscersi: debitori e creditori, commessi e clienti, datori di lavoro impiegati. E sanno, soprattutto, di essere ‘concorrenti’. Benjamin constata come la folla – che definisce ‘massa’ – protegga il criminale dai suoi aguzzini. E sono proprio questa ambientazione e questa folla a ispirare la nascita del romanzo poliziesco”.
Tra le pagine di Manifesto incerto, in una Parigi color carbone i grandi del Novecento condividono la solitudine dei cittadini più ignoti. Le illustrazioni di Pajak, le espressioni dei volti disegnati unite alle parole che le corredano, procurano nel lettore emozioni che rimandano ai propri luoghi oscuri, a una geografia non solo urbana ma anche umana. “Nel 1911 Franz Kafka soggiorna a Parigi (…). Camminando lentamente tra i corridoi ha modo di apprezzare al meglio ‘l’indifferenza affettata dei passeggeri’. Nota inoltre come, salendo o scendendo dal treno, non sia necessario rivolgersi al bigliettaio né a chiunque altro. ‘Il linguaggio è stato eliminato dal viavai’”. Ed ecco la descrizione de la Gare de l’Est: “Rattoppata e intonacata, colorata a nuovo da esecrabili architetti. È lì che l’umanità va ad affrettarsi, a perdersi, a rivestire l’atrio della propria viscosa malinconia. Troppa infelicità e troppa poca felicità perché la vecchia stazione possa sorridere. Traffichini, gente spaesata, ficcanaso, poliziotti sul chivalà, soldati con le armi in pugno, viaggiatori trafelati. Tutto un piccolo mondo che si struscia nell’atrio. Parigi inizia sempre da una stazione. Tutti arrivano o ripartono da uno di questi orifizi – tutti a eccezione dei fantasmi che, appena atterrano, si riversano in automobili dai vetri oscurati per sottrarsi alla vista di quelle persone comuni che non vedono mai. Ogni stazione di Parigi ha un proprio odore, un proprio grembo, i propri lividi. Non appena sbarcati, i viaggiatori vengono spediti nei rispettivi quartieri: tra i poveri o tra gli agiati, tra i sonnambuli, i sognatori assuefatti al brulichio delle strade, gli ingenui innamorati ai quali Parigi toglierà presto ogni speranza. Bisogna sputare il sangue per diventare parigini, e bisogna ringoiarlo per lasciare la città e le sue vestigia”.
Città inventate come Holt, città vere come Parigi, ma cosa è vero e cosa è invece solo percezione, resa fantasmatica delle proprie ossessioni? In un curioso libro fotografico appena pubblicato dall’editore d’arte olandese KesselKramer Publishing, scopriamo l’esistenza di una città termale dei Carpazi, ormai decaduta. Erik Kessel ha creato una serie di libri, divenuti di culto, dedicati alle diapositive amatoriali ritrovate in cantine e mercatini. In almost every picture siamo nella Romania socialista degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Il protagonista è un pastore tedesco, di proprietà del fotografo George Nitescu. Siamo a Baile Tusnad, cittadina della Transilvania occidentale, famosa per i rumeni che ci andavano in vacanza e frequentavano le terme. Nitescu era un fotografo di strada: faceva ritratti dei turisti e glieli vendeva. La star presente in ogni foto è il suo pastore tedesco, prestato per rendere più simpatico e pittoresco lo scatto. Attorno al cane si mettono in posizione genitori orgogliosi della progenie e bambini inteneriti che lo accarezzano, donnone a dieta e fragili nonnini, sullo sfondo di giardini pubblici, di statue e palazzi civici, di costruzioni termali. E così il cane diventa monumento, è più attraente di un generale a cavallo. È sempre lui, l’anonimo pastore tedesco, a dare un’impronta alla città che ora è divenuta nota anche a noi, benché sia nel frattempo decaduta. Le foto, ci mostrano le trasformazioni del paesaggio urbano nel ventennio di attività del fotografo: dal bianco e nero ai colori, il lago e la neve, i cambiamenti delle mode nell’abbigliamento, i ritratti in bikini. E l’edilizia: dal liberty del finto castello medievale alle cupezze strampalate dello stile sovietico-futuristico. Per terminare con la tristissima chiusura, la foto del cane lupo senza più vita, ultimo ritratto della serie.
Del resto, in termini di città inventate, altro che Metaverso, bisogna citare certe costruzioni ormai abbandonate per l’assurdità del progetto e i proibitivi costi di manutenzione, concepite con l’idea di essere congeniali all’uomo comunista della modernità, un po’ à la Gagarin. Le troviamo fotografate nel fondamentale CCCP Cosmic communist construct, pubblicato da Taschen. Un catalogo di futuristiche brutture architettoniche dell’era sovietica, monumentali scarti urbani e suburbani in cemento armato, che sono veri ma non sono mai stati reali, perché non hanno assolto alla funzione per cui erano stati concepiti.
Infine, eccoci a un’abitazione virtuale, inventata da un Fëdor Dostoevskij in stato di grazia, ironico e visionario. In Il coccodrillo, appena pubblicato in Italia da Adelphi, e subito plurirecensito per la sua straordinaria attualità, abbiamo un funzionario, Ivan Matveič, che va a spasso con la moglie e un amico nel Passage, prima galleria commerciale della Russia, shopping center ante litteram. Siamo a Pietroburgo poco dopo la metà dell’Ottocento. In un negozio è esposto un coccodrillo vivo, e tutti vanno ad ammirarlo. Il funzionario, incuriosito, gli tocca il naso e quello lo inghiotte in un solo boccone. L’uomo, borioso e ignorante, dentro la pancia del coccodrillo scopre che potrebbe diventare una celebrity, un vate che senza le distrazioni della vita mondana, avendo più tempo per concentrarsi in quel luogo propizio che è il ventre di un coccodrillo, potrà elaborare teorie salvifico-populiste, mentre la bella moglie potrà sfruttare la popolarità così raggiunta per creare un salotto mondano, dove tutti parleranno di lui, e verranno ospitate le principali menti scientifiche e artistiche del paese. Il nostro, dal ventre del coccodrillo emetterà sentenze e gli verrà raddoppiato lo stipendio dal datore di lavoro, grazie alla fama conseguita. “Ma com’è il ventre di un coccodrillo?”, chiede l’amico. “Ha soltanto fauci munite di denti affilati, oltre alle fauci una coda notevolmente lunga – ecco tutto. Nel mezzo, tra le due estremità, c’è uno spazio vuoto rivestito di qualcosa di simile al caucciù, sì, molto verosimilmente si tratta proprio di caucciù”. L’amico si preoccupa di come possa sopravvivere in quello spazio: “Esattamente come si gonfia un cuscino emorroidale, io ora gonfio il coccodrillo con la mia persona. È elastico oltre ogni immaginazione. Anche tu, se avessi il dono della magnanimità, in quanto amico di famiglia potresti sistemarti accanto a me, e persino così resterebbe ancora spazio”.