Camilla Baresani

Sommario

Pittoresco criminale

- IDEM - n° 1 - Storie

Pittoresco criminale – Rappresentazione narrativa dell’Italia contemporanea e pigre aspettative del mercato editoriale

Un paese non è solo economia, politica, lavoro, paesaggio, numero degli abitanti e reddito procapite. È anche la rappresentazione che se ne fa, contribuendo a formarne l’immagine. Rappresentazione che finisce per sovrapporsi alla realtà, e crearne una parallela e pervasiva, non necessariamente veritiera. Spesso, giudizi e pregiudizi sui luoghi e su chi li abita nascono, più che dall’esperienza diretta, dall’immagine che ne danno cinema, televisione, giornali, letteratura. Sono fotogrammi e parole che formano idee e orientano se non la coscienza almeno la conoscenza.
Va riconosciuto alla narrativa (e parlo non solo di quella letteraria, anche di quella cinematografica e televisiva) un ruolo di formazione e istruzione fondamentale, spesso più efficace di quello scolastico.
Sappiamo tutti che per raccontare storie interessanti bisogna focalizzarsi su un conflitto, che alla fine potrà sciogliersi oppure esplodere senza che nulla si risolva: con le buone notizie e le rassicurazioni non si fa cinema né letteratura (e tantomeno giornalismo). I mondi cristallizzati nel bello e nel buono appartengono solo alle riviste di arredamento, viaggi, lifestyle: rappresentazioni immobili, che colgono l’attimo e rifiutano il divenire con le sue inevitabili incrinature. Tuttavia in Italia alcuni autori di sceneggiati televisivi prodotti dalla RAI, forti di una tradizione pedagogica di stampo democristiano, si ingegnano a costruire fiction agiografiche, in cui celebri personaggi della storia italiana – preti, maestre, ciclisti – vengono raccontati con toni stucchevoli e consolatori, privi di spessore e complessità vitale, e con una fissità da scatto fotografico. Per simili storie c’è un pubblico ampio ma residuale: anziano, poco istruito, di basso reddito. Oltretutto queste agiografie non sono prodotti esportabili, perché basate su canoni narrativi così bolsi da essere utilizzati ormai quasi solo nei paesi a regime dittatoriale. Ma, in alternativa a quella edificante, c’è una rappresentazione dell’Italia che invece fornisce a lettori e spettatori un prodotto molto richiesto dal mercato: il pittoresco criminale. È questa l’Italia che piace e conquista lettori, spettatori, pagine dei giornali, qui da noi ma soprattutto all’estero. L’Italia del crimine organizzato, del meridione messo in scena tra bei paesaggi assolati e scempi delittuosi. Caduta nel dimenticatoio l’epoca del folklore mandolinistico, delle popolane sexy e dal cuore d’oro, dei frutti della terra ubertosa cresciuti spontaneamente tra siti archeologici e osterie dove si canta e balla davanti al fiasco di vino, l’Italia che oggigiorno accende l’attenzione non è più quella del Grand Tour bensì quella del degrado camorristico, della mafia in tutte le sue declinazioni – da ridere o da morirci ammazzati. Oppure avvince il racconto dell’Italia berlusconiana, rigorosamente descritta con toni macchiettistici, da avanspettacolo, e mai all’americana (ossia con intrecci di complotti orditi da lobby politiche in alleanza coi più stretti collaboratori del Presidente, o di forze armate mercenarie associate a spietate multinazionali – il tutto all’insegna del “quello che la politica vi fa vedere non è mai come sembra”). E così finisce che, tra Montalbano e Gomorra, tra spazzatura napoletana e “infermiere” del Presidente del Consiglio, l’immagine dell’Italia sia fatta principalmente di due ingredienti: una miscela di avanspettacolo, bozzettistica e goliardia, e una buona dose di criminalità animalesca, bestiale, tutto sommato circoscritta a una parte malata del Paese.
È curioso come la borghesia italiana, che diventò soggetto narrativo negli anni ’60 (ma descritta soprattutto in modo grottesco), non abbia in seguito saputo continuare a raccontarsi nelle proprie professioni, coi toni e gli intrecci della fiction contemporanea. Se all’estero il nostro paese è conosciuto non solo per la criminalità ma anche per raffinate produzioni industriali, per la moda e il design, per l’arte e la professionalità degli artigiani, questa Italia attiva e interessante vende in quanto prodotto ma non in quanto racconto. Un editore inglese o tedesco, dovendo comprare un romanzo italiano, sceglie senz’altro una bella storia di malavita meridionale anziché la narrazione di una spietata guerra tra studi legali per accaparrarsi un cliente danaroso. La nostra narrativa e il nostro cinema non sanno mettere in scena le professioni e le aziende, né rappresentano la vis comica degli inghippi burocratici e localistici che creano inciampi nella vita produttiva del paese. E anche se qualcuno scrivesse uno spietato romanzo borghese sulla scalata sociale di un industriale calzaturiero, difficilmente troverebbe un successo di pubblico. Il mercato della fiction chiede una narrativa “dopata” dalla cadaverina, ingrediente letterario che aiuta le vendite e accende la fantasia, ma rigorosamente unito a miseria, disgrazia, degrado e ambientato nel meridione. Eppure l’Italia è anche altro, molto altro. Ci si lamenta che il diffuso e variegato “popolo delle partite IVA” non abbia protezioni sindacali né rappresentanza politica, ma andrebbe specificato che non ha nemmeno uno status narrativo, forse proprio per questa sua incapacità di mettersi in scena. C’è insomma un’Italia altrettanto rappresentativa di quella del malaffare organizzato, che non ha pubblico perché nessuno vuole le sue storie e in pochi le raccontano. La reputazione letteraria di un paese non può fermarsi al successo dei suoi elementi pittoreschi, e bisognerebbe che i nostri autori lo tenessero presente, evitando di adeguarsi alle pigre aspettative del mercato editoriale e provando a creare un nuovo corso narrativo che desse voce e intrecci graffianti e contemporanei anche alla parte produttivamente attiva del paese.