Gli scrittori dovrebbero evitare di occuparsi di politica. Quando lo fanno, di solito firmano appelli, sostenendo parole d’ordine di cui magari di lì a poco si vergogneranno. Oppure vanno in Parlamento, si fanno eleggere e scoprono di essere inutili. Sebbene il nostro paese ne abbia mandato un discreto numero alla Camera e al Senato, non si ricorda nulla di almeno vagamente notevole generato dalla loro attività politica.
Gli scrittori, a meno di non vivere sotto una dittatura, non riescono a essere significativi se non come autori di buoni libri che minano le stupidaggini in cui ognuno di noi, per abitudine e superficialità, tende a credere.
Come esempio si potrebbe denunciare uno dei tic lessicali (e mentali) più sciocchi del chiacchiericcio politico quotidiano. Quando un ragionamento o un’invettiva attacca con “In un paese normale questo non….”, o con la variante “In un paese civile questo non…”, si può star certi che seguirà una massa di mistificazioni e luoghi comuni. Ogni paese è incivile a modo suo, perché la natura dell’uomo è uguale ovunque: rubare, danneggiare, trasgredire, fare il furbo. Non basta: è essere incompetente senza saperlo e sbagliare in buona fede. Al punto che spesso le cose positive nascono da errori e previsioni sbagliate. Per fortuna in tutti noi esiste anche una tensione a prendersi cura di ciò cui si tiene, e a compiacersi di quello che funziona; non di rado, scatta la molla che trasforma queste mozioni private in un’attenzione virtuosa a quello che condividiamo con gli altri. Ma in Italia, sembra che tutti abbiano una diversa idea di ciò che sarebbe bello condividere, e persino coloro che per anni si sono radunati intorno a istanze quali l’essere antiberlusconiani o essere anticasta si scoprono poi divisi tra loro, solo anti e incapaci di essere pro qualcosa.
Qualche estate fa portavo i miei due cani a fare il bagno in una spiaggetta accanto alla recinzione di una casa. Avevano preso l’abitudine di correre intorno alla rete abbaiando furiosamente contro i due cani della villa, ricambiati con altrettanta foga dai loro simili/rivali. Un giorno, mentre si sfidavano con la consueta acredine, uno dei miei si era avventato con le zampe anteriori contro un cancelletto, che, incredibilmente, si era spalancato. I quattro, anziché lanciarsi l’uno contro l’altro, avevano fatto un balzo simultaneo all’indietro e, dopo essersi guardati intorno basiti, si erano dati le spalle, allontanandosi mestamente.
Da quel giorno, nei miei cani è subentrato un disinteresse totale, sia per i due nemici, sia per quella spiaggia. Come gli antiberlusconiani: se gli togli il gusto di abbaiare contro l’anziano tycoon con le sue Ruby, con i suoi consulenti, col suo intreccio di smargiassate, interessi privati e buone intuizioni politiche; se gli togli il gioco dell’indignazione, ecco che si spengono, privi di idee, di interesse, di senso.
Ma proprio nelle pagine di un romanzo ho trovato la chiave di un pro-getto che mi pare condivisibile, che cioè possa dare agli abitanti del nostro paese un senso di orgoglio, di compito utile, di cura collettiva, e sia in grado di generare posti di lavoro, benessere, appartenenza. Nel finale di La carta e il territorio, il misantropo scrittore francese Michel Houellebecq, descrive una Francia che, attorno al 2030, si è trasformata in parco a tema per ricchi turisti di paesi emergenti. Le zone rurali si sono ripopolate di abitanti provenienti dalle città, “animati da un vivo appetito imprenditoriale e talvolta da convinzioni ecologiche moderate, commerciabili. (…) La Francia, sul piano economico, era in buona salute. Divenuta un paese soprattutto agricolo e turistico, aveva mostrato una robustezza notevole nelle varie crisi che si erano susseguite, pressappoco senza interruzione, negli ultimi vent’anni. (…) Avendo da vendere quasi soltanto hôtel de charme, profumi e rillettes – quella che si definisce un’arte di vivere -, la Francia aveva resistito senza difficoltà a tali rischi. Da un anno all’altro cambiava la nazionalità dei clienti, ecco tutto”.
Chi si occupa di turismo – professione le cui fortune dipendono dal poter mettere in mostra bellezze paesaggistiche e di storia dell’arte – sa che l’Italia è un paese fatto per complicarne e ostacolarne il lavoro. Grovigli di regolamenti contrastanti tra Stato, regioni, provincie e comuni; musei malconci, sparpagliati, tristi; brutture architettoniche e cementificazioni illogiche; impunità garantita a chi sporca, distrugge, disordina; rincorsa patetica a un’edilizia verticale, asiatica, e assoluta mancanza di investimenti nella conservazione e nel recupero di quello che invece ci rende unici, profondi, speciali. Il tutto ammorbidito dai tanti sforzi individuali ammirevoli che però non fanno “sistema”, non creano un tessuto virtuoso.
Torniamo al profetico romanzo di Houellebecq: “Di fatto, i nuovi abitanti delle zone rurali non assomigliavano affatto ai loro predecessori. Non era stata la fatalità a indurli a lanciarsi nell’attività artigiana del cestaio, nel rinnovamento della casa contadina da affittare a turisti o nella produzione di formaggi, ma un progetto d’impresa, una scelta economica soppesata, razionale. (…) Questa nuova generazione si mostrava più conservatrice, più rispettosa del denaro e delle gerarchie sociali. In modo sorprendente, il tasso di natalità in Francia era effettivamente risalito, anche senza tenere conto dell’immigrazione che si era comunque quasi azzerata dopo la scomparsa degli ultimi lavori industriali e la riduzione drastica delle misure di previdenza sociale, all’inizio del terzo decennio del 2000”.
Una simile proiezione del futuro della Francia non ha nulla a che vedere con lo slogan “decrescita felice”, di cui ciascuno di noi avverte anzitutto il significato della parola “decrescita” (e sul “felice” coltiviamo sinistri presagi). L’unica soluzione che vedo per il nostro paese è quella di trasformarlo in un immenso parco a tema, minimizzando la vetusta e fallimentare politica industrial-sindacale. Si tratta di rinnovare l’offerta culturale e turistica, di valorizzare e poi far pagare l’ingresso a “Italiaworld” a quei milioni di turisti alla ricerca di qualcosa di unico e irripetibile, altro che le torri di vetro e acciaio intercambiabili, offerte massicciamente in qualsiasi neo-luogo dei BRICS.
Il Trapezòphoros di Ascoli Satriano – due grifoni che sbranano una cerva – è uno sbalorditivo capolavoro dauno del IV secolo a.C. che, quando era esposto al Getty Museum di Los Angeles (dal quale era stato illegalmente acquistato), era solo un ennesimo magnifico cimelio astratto, privo legami con il territorio che lo ospitava. Ma se Ascoli Satriano, un paesello arroccato della provincia di Foggia che nemmeno gli italiani immaginano come meta turistica, diventasse parte di un vasto territorio ben servito da treni e aerei, dove artigianato, agricoltura biologica, boutique-hotel, archeologia sono collegati al vicino bacino turistico del Gargano, e dove si può facilmente affittare un’auto, una bicicletta, un motorino o essere scarrozzati tra capolavori del passato e delizie gastronomiche, non si creerebbe forse sviluppo e lavoro “sostenibile”, permettendo di mettere una croce sopra le devastazioni operate dal sogno industriale ormai tramontato? Scovare ad Ascoli Satriano, il luogo della vittoria di Pirro raccontata da Plutarco, un simile capolavoro creato ben diciannove secoli prima di Buonarroti, fa provare a ogni turista la sensazione di essere un piccolo Schliemann.
Negli ultimi decenni, in Italia, qualsiasi professione statale ha perso fascino e credibilità. Rovinati dal livellamento sindacale, gli insegnanti non sono più ritenuti autorevoli; rovinati dal posto garantito, gli impiegati e i funzionari statali sono diventati, nella percezione collettiva, una massa di sfaticati; rovinati dai privilegi autogarantitisi, i politici hanno perso la testa e con quella il collegamento col mondo delle idee, del lavoro, della progettualità. Eppure è proprio dall’idea di un politico dei più svalutati, quel Gianni De Michelis degli anni del socialismo famelico e sbruffone, che bisognerebbe ripartire. I beni culturali sono il petrolio del nostro paese, sosteneva De Michelis; sono “giacimenti culturali” e dunque sfruttiamoli, esibiamoli nel più allettante dei modi, facciamo pagare i biglietti dando un valore anche commerciale alla storia, alla bellezza, alla cura; creiamo posti di lavoro nel vasto campo di professioni che ruotano intorno alla cultura e al turismo. Non spaventiamoci per quel po’ di kitsch che ogni commercializzazione porta inevitabilmente con sé.
Finite tutte le illusioni rivoluzionarie, l’unica vera rivoluzione sostenibile resta quella di dedicarsi ai giacimenti culturali, organizzandoli con le regole ferree delle catene di alberghi cinque stelle lusso: personale che ti guarda in faccia, ti saluta e sorride, cerca di aiutarti; disponibilità di comfort, esaltazione del bello e cura dei dettagli, promozione, investimenti, marketing… Perché non estendere quel tipo di progettualità e professionalità alberghiera alla commercializzazione di bacini paesaggisti, architettonici, artigianali?
Sono passati più di vent’anni dalla proposta di De Michelis, e con essi sono tramontati molti progetti, molte mode, molte ideologie. Ma i giacimenti culturali sono ancora qui, da valorizzare, e per fortuna le pagine di uno scrittore francese ce lo ricordano.