La mia vita è un romanzo. Lo dicono in molti e invece quasi sempre è normale amministrazione: amori infelici, ordinari disastri lavorativi, incidenti di percorso. Ma la vita di Romain Gary quella sì, quella è stata più romanzesca dei tanti appassionanti intrecci creati per i suoi romanzi.
Personaggio fascinoso e irripetibile, uomo dai molti talenti – scrittore, eroe di guerra, poliglotta, diplomatico di carriera, regista cinematografico, ecologista, inviato speciale -, in sessantasei anni di vita è riuscito a contenere svariate esistenze.
Gary nasce povero ebreo tra ebrei poveri nel 1914 a Vilnius, con il nome di Roman Kacev. Siamo all’inizio della catastrofe europea e la madre, una modista abbandonata dal pellicciaio che l’ha messa incinta, nel 1928 riesce a emigrare e si stabilisce a Nizza. È una sognatrice e suo figlio è il suo unico patrimonio: per realizzare sé stessa deve realizzare lui. Lo immagina ufficiale, diplomatico, scrittore. Soprattutto lo immagina francese, senza accento orientale, senza ricordi di pogrom polacchi. Consideriamo che, come scriverà poi Gary, vivere in Costa Azzurra da émigré russo-ebreo era come cinquant’anni più tardi viverci da magrebini.
Per darsi un tono meno terra-terra da cui ripartire, la madre racconta di essere stata attrice e che Roman è in realtà figlio di un famosissimo attore del cinema muto, il russo Ivan Mosjouskine. Roman cresce, bello e seduttivo, ossessionato dalle mire della madre e dalla necessità di realizzarle. Cambia nome: Romain Gary (in russo Gary significa “brucia!”). Studia legge a Parigi, scrive racconti, non supera l’esame del corso allievi ufficiali (forse per problemi di casta). Quando i nazisti invadono la Francia si arruola con i resistenti gollisti, raggiunge l’Inghilterra, riesce finalmente a diventare aviatore nelle Forces aériennes françaises libres. Qui compie le imprese più spericolate, vede decimare i suoi commilitoni e termina la guerra come “compagnon de la Libération” decorato con Legion d’Onore. Pubblica i primi libri. Siamo dunque a buona parte della realizzazione delle proiezioni della madre, nel frattempo deceduta. Dettaglio straziante: durante la guerra, lei gli spedisce più di duecento lettere. Ma al ritorno Gary scopre che la madre è morta da tre anni e quelle lettere, spedite da un’amica, erano state scritte in precedenza per non farlo preoccupare.
Dopo la guerra, Gary riceve un incarico diplomatico. Console generale francese negli Stati Uniti e all’ONU. Vive a Los Angeles, incontra attori, scrive libri e sceneggiature. Divorzia dalla prima moglie, la pluricornificata scrittrice inglese Lesley Blanch, che aveva dieci anni più di lui, e sposa la giovane diva Jean Seberg, bellissima, fragile, efebica. La Seberg, che al pari di tutti gli attori aveva bisogno di una causa da sposare, si affilia alle Black Panther. Nel frattempo, nel 1956, Gary vince uno dei più prestigiosi premi letterari del mondo, il Goncourt, con Le radici del cielo. Un romanzo ambientato in Africa, che parla di sterminio degli elefanti decenni prima che tutti si buttino sull’ecologismo. Mentre soggiorna a Big Sur, scrive uno dei suoi capolavori, La promessa dell’alba, sorta di lunga lettera d’amore alla madre. “Diventerai un eroe, un generale! Diventerai un Gabriele D’Annunzio, un ambasciatore di Francia. Questi straccioni non sanno chi sei!” lo fomenta la madre. E lui: “Tanto vale dire subito, per chiarire questo racconto, che oggi sono console generale di Francia, membro della Liberazione, ufficiale della Legion d’Onore, e che se non sono diventato né Ibsen né D’Annunzio non è che non abbia tentato”. E anche: “Con l’amore materno la vita ci fa all’alba una promessa che non manterrà mai. In seguito, si è costretti a mangiare gli avanzi, fino alla fine. Ogni volta che una donna ci prende fra le braccia e ci stringe al cuore, si tratta solo di condoglianze”.
Gary diventa un istrionico personaggio pubblico, un divino mondano. Nel frattempo, la moglie lo cornifica con elementi delle Black Panther, l’FBI la segue, le minacce ne minano la salute mentale. Anche lui fa la sua parte di infedele, e soprattutto non apprezza l’ossessione attivistica della Seberg. Si separano, non dopo aver messo al mondo un figlio, Diego, che crescerà allevato da una tata basca.
Gary, scrive a man bassa. Alla fine della sua vita, usando anche vari pseudonimi, avrà pubblicato una quarantina tra romanzi e diari.
Arriviamo agli anni Settanta. Gary scrive un’autointervista meravigliosa: La notte sarà calma. Ci sono aneddoti e riflessioni imperdibili. La scrive per spiegarsi, perché nel frattempo è entrato nel famoso cono d’ombra sintetizzato da Arbasino, “da bella promessa a solito stronzo”. Ne soffre e allora, per tornare alla prima categoria, escogita di scrivere un romanzo con un nuovo pseudonimo, Emile Ajar (Ajar in russo significa brace). La vita davanti a sé, ideato in una lingua letterariamente nuova e fragrante, quella gergale dell’immigrazione, consacra Ajar come primo narratore delle banlieu plurietniche. Le stesse che molti anni dopo diverranno protagoniste dei romanzi di Pennac. Vi si racconta di Momo, un bambino abbandonato da una prostituta magrebina e cresciuto con altri figli di nessuno da una vecchia ex tenutaria di bordello, l’ebrea Madame Rosa. Grazie allo pseudonimo, Gary/Ajar vince nuovamente il Prix Goncourt (che può essere vinto una sola volta dallo stesso autore).
Il romanzo diventa un long seller e finirà in due film: uno memorabile, con Simone Signoret, vincerà nel ’78 l’Oscar come miglior film straniero; l’altro, del 2020 e meno riuscito, è interpretato da Sofia Loren.
Per non svelare il mistero e dar corpo a Emile Ajar, Gary ingaggia un nipote, e alla fine soffrirà per quello scippo di identità, sarà geloso del fantoccio da lui stesso creato. Nello stesso anno di La vita davanti a sé esce un altro romanzo, a firma Gary, bellissimo e probabilmente intriso di spunti autobiografici: Biglietto scaduto, la storia di un sessantenne con problemi di erezione, innamorato di una giovane ereditiera brasiliana. Il titolo francese, Au-delà de cette limite votre ticket n’est plus valable, è la scritta sul biglietto della metropolitana parigina. Per un seduttore come Gary, che senso poteva avere una vita sessualmente fallata?
Nel 1979 Jean Seberg muore suicida dentro un’auto parcheggiata lungo un boulevard. L’anno dopo tocca a Gary: si suicida nella sua casa di Rue de Bac, dopo aver comprato una vestaglia di seta rossa in cui avvolge la testa, per alleviare lo choc di chi lo troverà. Lascia un biglietto: “Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove”. E lascia un libro da pubblicarsi postumo: Vita e morte di Emile Ajar, in cui svela al mondo chi è il vero autore di La vita davanti a sé. Come se dicesse: vedete, non sono il solito stronzo, l’autore non più acclamato dalla critica, il trombone invecchiato. Ero ancora capace di scrivere, di pensare, di ingannarvi.
Eroe e intellettuale, guascone e sentimentale, mistificatore per necessità vitale e alla fine uomo intrappolato nelle proprie mistificazioni.
Romain Gary si è molto raccontato e aveva intuito che per continuare a vivere avrebbe dovuto sempre reinventarsi: ora lo fa chiunque, con facilità, impersonando nuovi profili virtuali sui social.