È il 1979 quando Michelangelo Romano, produttore dei dischi di Roberto Vecchioni, cerca Andrea Pazienza. Le storie di Pentothal, con cui Pazienza aveva esordito solo due anni prima, gli avevano fatto pensare che potesse il suo lavoro potesse essere interessante per la copertina di Robinson, come salvarsi la vita, il disco cui lui e Vecchioni stavano lavorando. “Andrea aveva 23 anni, io 32. Ero più grande ma non tanto da intimidirlo”. In quel periodo, oltre ai precedenti dischi di Vecchioni, Michelangelo aveva già prodotto sia America di Gianna Nannini sia Sotto il segno dei pesci di Antonello Venditti. Ma di cosa si occupava un produttore? “In pratica di tutto, dalla costruzione delle canzoni agli arrangiamenti fino ai missaggi. In quegli anni la figura del produttore aveva conquistato più spazio. Eravamo subentrati ai produttori artistici dipendenti della casa discografica. Una strofa di Up Patriots to arms di Franco Battiato diceva: ‘mandiamoli in pensione i direttori artistici’. Io avevo iniziato su richiesta di Vecchioni: mi occupavo della copertina, dei testi e degli arrangiamenti, della promozione: un rompicoglioni assoluto. Quando ho cercato Andrea, avevamo già fatto con Samarcanda una copertina tripla piena di testi, disegni e fotografie. L’idea era quella di espandere graficamente il contenuto del disco. Con Pazienza il discorso sarebbe diventato ancora più interessante, divertente, articolato e persino contradditorio rispetto al senso delle canzoni. Pensavo alle copertine dei Pink Floyd o di Frank Zappa: rimandavano al cinema ma anche alla letteratura fantastica, alla grafica. Evocavano mondi che non appartenevano solo alla musica. Zappa, per esempio, usava i fumetti di Robert Crumb. La musica che non era di puro intrattenimento aveva una fitta rete di contatti con la cultura alternativa. Tutto questo però in Robinson non c’era ancora, perché ad Andrea avevo detto solo il titolo del disco, che non era ancora finito. In primo piano disegnò Vecchioni e poi tutt’intorno l’isola, con una vegetazione tropicale appena rischiarata da una luce notturna, e la luna era la O di Robinson che illuminava la scena. Richiamai Pazienza l’anno dopo per il disco successivo, Montecristo. Pensavo che si potesse ottenere molto di più coinvolgendolo, raccontandogli il mondo di quelle canzoni, e così feci una cosa da produttore: lo invitai una settimana a Positano Betta, la fidanzata che era anche un personaggio delle sue storie su Linus”. Ma quanto costava una copertina di Pazienza? “Quando gli proposi di fare Robinson mi disse ‘Voglio un milione!’ e io gli risposi ‘Va bene!’. Forse anche per questo finale da Signor Bonaventura mi ha trovato molto simpatico. Dopo la vacanza, Andrea ci raggiunse veniva al castello di Carimate, che era lo studio di registrazione più famoso di quei tempi. Da quel castello, gli Stone Castle Studios, passava metà della musica italiana: in uno studio registrava Dalla, in un altro passava Venditti, Finardi aveva preso casa lì vicino. Il proprietario e fondatore, Antonio Casetta, era un visionario che mi verrebbe da accostare a Franco Maria Ricci, come spirito e stile – e visionario si dice di quelli che hanno avuto successo, mentre i perdenti li chiamano sognatori. Con Andrea scherzavamo: uno che si chiama Casetta vive in un castello. Tra cazzeggi e giochi ci venne in mente di fare una storia a fumetti, con il castello di Carimate che diventava il castello d’If, la prigione del conte di Montecristo. Iniziammo a scrivere abbozzi di un fumetto con Vecchioni/Montecristo che scavava una galleria cercando di scappare dal castello, e ogni tanto la storia si intersecava con le canzoni del disco. Andrea allora sviluppava un racconto alternativo al testo, e poi tornava a un Vecchioni più comico. Chiamava le gag ‘i pupazzetti’, cui alternava storie più serie, che magari prendevano spunto dalle canzoni del disco ed erano disegnate con un tratto meno caricaturale, più naturalistico, come in Spirit di Will Eisner.
Era una specie di progetto alla Hellzapoppin’, un film comico del ’41 che era stato riscoperto nelle cineteche degli anni Sessanta, assieme ai film dei fratelli Marx. Apparteneva più alla mia cultura che a quella di Andrea, che tuttavia entrò subito in sintonia con lo spirito anarchico, irredente, visionario di quel film senza trama. Lui usava attacchi tipici delle storie di genere, e poi partiva per la tangente. Infatti, nelle strisce di Montecristo aveva messo un investigatore alla Chandler, ma poi entrava Lewis Carrol e fotografava un’Alice esibizionista che apriva l’impermeabile. Nella storia arrivavano anche quelli che passavano al castello. Lucio Dalla a tavola con Francesco De Gregori gli dice: ‘I musicanti non piangono mai’, citazione di una delle sue prime canzoni che ha un testo brevissimo: I musicanti accordano il violino / Stasera suoneranno sulla luna / E non importa niente / Se la gente del caffè / Non capirà la loro anima / I musicanti non piangono mai. C’è poi Vecchioni che arriva con una carriola e dice ‘Alan Alan’ – il tecnico del suono Alan Goldberg. E Dalla manda una lettera a Vecchioni: ‘Caro amico ti scrivo’, citazione da L’anno che verrà, a cui Vecchioni risponde con la canzone L’anno che è venuto, e comincia dicendo: ‘Caro amico non scrivermi’. Nel frattempo, Vecchioni/Montecristo passa il tempo sferruzzando maglioni per il carceriere, con una frase che mi intenerisce: ‘E due sottobicchieri all’uncinetto che non ce n’è mai abbastanza’, e la ripete come tormentone per poi arrivare alla battuta finale. A un certo punto il castello viene assalito da una truppa di lanzichenecchi capeggiati da un certo Ditti il vendicativo – Ditti era il soprannome di Antonello Ven-ditti, datogli dalla sua ragazza, una tedesca molto simpatica. E così Ditti Ditti era diventato anche l’accompagnamento di una canzone del disco, La città senza donne, in riferimento al film di Fellini, La città delle donne, che per pura coincidenza aveva come manifesto un disegno di Andrea. All’interno della copertina del disco, che era triplo, invece della donna a mezzo busto con lunghi capelli della locandina del film di Fellini, c’erano un viso femminile tagliato all’altezza degli occhi e i capelli, che diventavano una serie di cose: sul bordo estremo di destra che si trasformavano in onde del mare, e c’era Vecchioni che remava su una barchetta; un altro ricciolo diventava una città con il campanile, la piazza e le case; un altro ancora si trasformava in una specie di volto. Diciamo la verità: era molto più bello il disegno della busta del disco della locandina del film. Con una busta, Andrea si sentiva libero di giocare, di spaziare, di creare”.
Nel frattempo, in pochi anni Andrea era diventato una star. Fece, insieme a tante altre cose, anche le copertine di Claudio Lolli, della PFM e di Enzo Avitabile. “Però io, immodestamente, dico che le più belle sono quelle che ha fatto per Vecchioni”. Cosa cambiava, perché erano le migliori? “Gli altri gli chiedevano di fargli la copertina e lui la faceva, invece nel nostro caso era un ‘mettiamoci questa cosa, aggiungiamo quest’idea’, era un lavoro molto più creativo. Per esempio, nel terzo disco di Vecchioni che abbiamo fatto insieme, Hollywood Hollywood, nell’82, Andrea veniva a casa mia e gli mostravo vecchi film, come Spettacolo di varietà, un musical con Fred Astaire del ’53. Aveva preparato un po’ di schizzi su movimenti di ballo che poi non abbiamo usato, ma è rimasta l’idea perché all’interno della busta disegnò un trio di ballerini sotto il cielo stellato: un Fred Astaire anziano, un Gene Kelly un po’ ingrassato e con i baffetti, e al centro una ragazza incongrua con un vestito che le scopre le tette. Passavamo i pomeriggi a chiacchierare e poiché gli suggerivo un po’ di cose senza nessun obbligo di utilizzarle, a lui è venuto in mente di firmare le copertine con il nome di tutti e due, anche se ovviamente io non disegnavo”.
“Per Montecristo e Hollywood Hollywood Andrea preparò anche una serie di vignette da pubblicare su Repubblica per la pubblicità del disco. Per esempio, un signore azzimato, impomatato, con le bretelle che fuma e dalla cui bocca esce una striscia di fumo che disegna la scritta Hollywood Hollywood. In un altro c’è una faccia femminile abbastanza grottesca, con una smorfia, i denti giganteschi, il foulard a pois. Andrea me la fece vedere con l’aria di avermi fatto uno scherzo e io senza capire gli dissi ‘Sì sì carina, divertente’. Qualche decennio dopo, riguardandola, mi sono reso conto che era Ornella”. Diciamolo allora: all’epoca Michelangelo era fidanzato con Ornella Vanoni e vivevano insieme nella casa di Ornella, dove Andrea Pazienza ha disegnato la quarta copertina per Vecchioni. “Lei lo trovava molto simpatico. Lui era divertente, spiritoso…”. Era anche un bel ragazzo. Piaceva alle donne? “Una volta a Brera due ragazze che lo avevano conosciuto ci avevano fermato. Volevano parlargli, ma lui le ha quasi ignorate”. Era un seduttore? “Penso che sia stato molto corteggiato. Forse più sedotto che seduttore”.
E così arriviamo al quarto disco in sei anni, Il grande sogno. “Questa volta il lavoro di Andrea non piacque molto a Vecchioni e a Daria, sua moglie. Il rapporto si era un po’ esaurito, non aveva più tanta voglia. Io poi l’ho rimontato per mettere in copertina la pantera che nel disegno originale era uno dei personaggi piccoli. Andrea a era cambiato, è stato per lui un periodo buio ed è finita che non ci siamo più frequentati. Gli avevo chiesto una copertina per Venditti e mi mandò dei disegni evidentemente non fatti da lui, ma da qualche suo allievo. Tra le tante cose che faceva, insegnava anche in una scuola di disegno. Poi, trentacinque anni fa, al telegiornale c’è Angela Buttiglione. Dice che Andre Pazienza è morto. Aveva la stessa mia età di quando ci eravamo conosciuti, nove anni prima”.