Camilla Baresani

Sommario

Viaggio nella maternità surrogata: la San Francisco Surrogacy Conference & Expo

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Tra le parole più sgradevoli negli ultimi tempi, “surrogata” è ai primi posti. Secondo il dizionario, questo termine, declinato al maschile come quasi tutti quelli della lingua italiana, significa “Prodotto alimentare di qualità inferiore che si può usare in luogo di un altro”, o anche “Ciò che sostituisce un’altra cosa, spesso in modo incompleto o imperfetto”. Insomma, qualcosa di scadente.
Il significato più attuale, quello per cui il vocabolo è sulla bocca di tutti, è invece declinato al femminile e fa riferimento a una donna pagata per portare a termine una gravidanza il cui frutto, il bambino, finirà in mano alle persone che hanno commissionato il “lavoro”.
In questo genere di gravidanze l’ovulo fecondato può essere della madre surrogata o venire impiantato e appartenere alla donna che diventerà madre ufficiale del bambino, o provenire da una terza figura, una cosiddetta donatrice (che in genere riceve un compenso per la vendita del proprio ovulo). Quanto agli spermatozoi, possono appartenere all’uomo che sarà padre del bambino, o a un donatore/venditore estraneo. Ogni combinazione è possibile.
Se il prodotto, cioè il bambino, è uno, unico, indivisibile, appartenente anzitutto a se stesso e ha dei propri specifici diritti più o meno tutelati da tutte le legislazioni dei Paesi democratici, non altrettanto si può dire degli adulti interessati: la madre surrogata, il padre o i padri adottivi, la madre o le madri adottive, la coppia etero o il single che hanno commissionato la gravidanza. Vi sembra un caos? Lo è. Anche in Paesi all’avanguardia nella liberalizzazione di tutte le possibilità del sentimento e della scienza, la legislazione non riesce a stare al passo con le continue eccezioni che si possono creare. Eccone alcune: la madre surrogata, nonostante abbia firmato documenti che glielo vietano, decide di non consegnare il bambino, oppure lo consegna ma poi non riesce a staccarsi e molesta i neo genitori che non glielo lasciano incontrare. Oppure, la coppia adottiva dopo qualche tempo si separa ed entrambi reclamano il bambino, ma uno dei due ha prestato l’ovulo o gli spermatozoi e sente di avere maggiori diritti, un imprimatur genetico. O capita che la coppia si sfasci prima del termine della gravidanza surrogata e nessuno dei due futuri genitori ritiri il bambino. O ancora: i futuri genitori commissionano il bambino, danno un anticipo e non pagano il saldo, quello che si deve alla consegna.
A San Francisco, che è la città più liberale degli Stati Uniti, culla della cultura gay e arcobaleno, luogo dove ogni start up esistenziale è stata adottata senza scandali né problemi, si è appena svolta la terza edizione del San Francisco Surrogacy Conference & Expo. Essere genitori di bambini commissionati a una madre surrogata è diventata l’esigenza principe della comunità gay americana, dopo che gran parte delle altre battaglie sono state vinte.
I forum e i seminari di San Francisco sono stati dedicati approfondire gli aspetti ancora indefiniti di questa nuova dilagante forma di genitorialità: le conseguenze psicologiche, legali, sociali, nonché i presupposti etici. Attorno ai seminari e ai forum si svolgeva poi una parte fieristica con banchetti di espositori: consulenti della coppia, psicologi, associazioni di sostegno, avvocati specializzati in divorzi e nelle orribili conseguenze degli amori infranti, cliniche della fertilità. Molte le agenzie che aiutano a scegliere madri surrogate, con testimonial rassicuranti che ovviamente escludono l’utilizzo di schiave importate dalla Cina solo per il periodo della gravidanza, tenute sotto controllo medico in padiglioni clandestini, e reimbarcate per la Cina, come pure è successo in passato.
All’avanguardia, nel campo delle gestazioni su commissione, oltre agli Stati Uniti ci sono Israele, Belgio, Spagna e Francia, dove nel corso del 2016 verranno ospitate nuove edizioni del Surrogacy Conference & Expo. L’Italia, al solito assente, è però rappresentata da molti “compratori” abbienti, come ci è stato garantito da diversi espositori. Chi è contrario a leggi che liberalizzino e al contempo regolino la maternità surrogata, proprio come già è successo con l’aborto e con la procreazione assistita, non tiene conto che un divieto circoscritto ad alcuni Paesi del mondo occidentale non fa che accrescere il divario di possibilità tra ricchi e poveri, nel senso che ai ricchi basta andare all’estero. Di fatto, secondo me, vietare queste evoluzioni del sentire comune e del desiderio di costruirsi una famiglia, non fa che discriminare la popolazione a sfavore di chi non ha possibilità economiche.
Quanto alla figura più controversa e interessante di questa nuova forma di crescita familiare è, per conto mio, non il bambino, non l’aspirante genitore, ma la madre surrogata. Perché lo fa? Può del denaro (dai 30 ai 50 mila dollari al netto delle spese mediche ma non delle tasse) compensare un simile uso del proprio corpo, lo sformarsi, il sentir crescere una vita dentro di sé, le cure mediche, i piedi gonfi, il seno pieno di latte, i calci, il parto, oltre alla vita monacale imposta dalle regole dell’ingaggio che stabilisce la dieta, le attività possibili, persino il divieto di fare viaggi? Può una “madre gestazionale” lasciar andare per sempre e senza problemi il bambino appena partorito? Ho seguito un forum in cui alcune madri surrogate descrivevano i motivi per cui hanno scelto questa forma di lavoro. Alcune sostengono addirittura che la loro motivazione non sia il denaro ma un puro gesto di altruismo, per dare la gioia di un figlio a chi non può averne. Magari non saranno sincere, ma la cosa sembra plausibile, dal momento che gli Stati Uniti, con tutti i loro difetti, sono anche il Paese del volontariato, in cui una grandissima parte della popolazione è impegnata e spinta anche durante tutto il percorso scolastico a fare qualcosa di concreto per gli altri. Perlopiù queste madri surrogate hanno già propri figli e lavorano, o hanno lavorato, in campo infermieristico. La gravidanza surrogata permette loro di restare a casa con i propri bambini senza doversi allontanare tutta la giornata per portare a casa uno stipendio.
Alcune femministe, e all’opposto alcune donne conservatrici sostengono che questa sia una moderna forma di schiavitù femminile. Ma così come accettiamo che una donna adulta abitante di un Paese in cui vige la democrazia decida di diventare suora, di fare la prostituta, di dedicarsi a sport pericolosi, di riempirsi di tatuaggi, dobbiamo anche accettare che disponga del proprio corpo affittandolo per gravidanze per conto terzi. Come ha detto Papa Francesco, “chi siamo noi per giudicare”? Siamo forse più libere, più intelligenti, più esemplari di queste donne? Sarebbe un pensiero orribilmente presuntuoso.