La mattina del 5 dicembre 2017, le agenzie di stampa diffusero la notizia della morte del novantaduenne Jean Bruno Wladimir François-de-Paule Le Fèvre, conte d’Ormesson. Ero convinta che, se non i giornali italiani, quelli francesi ne avrebbero parlato per giorni e che dunque avrei avuto molto da leggere, scoprendo dettagli e risvolti che ancora non conoscevo sulla vita di questo fuoriclasse della storia culturale europea: scrittore di gran successo, giornalista e commentatore politico, uomo delle istituzioni, accademico di Francia, divino mondano (di mondanità però intellettuale e istituzionale), decorato con Legion d’Onore e, non ultimo, gran seduttore per via della conversazione in grado di spaziare dall’assedio di Troia a Stephen Hawking, per via degli occhi azzurri pungenti, e anche per il privilegio di essere un U, secondo la distinzione inventata dagli inglesi tra U e Non-U.
Essere U (upper class ma anche University), come ricorda d’Ormesson nel suo splendido memoir Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella (pubblicato nel 2016), è “una faccenda di linguaggio, di abbigliamento, di comportamento a tavola”.
Conservatore dal tratto elegante e sardonico, così definiva il ‘68: “Il sorprendente psicodramma conosciuto con il benevolo nome di ‘avvenimenti del maggio 1968’”. E per descrivere l’ambiente che l’aveva formato, spiegava: “I miei genitori erano cattolici liberali, di sinistra, e mi hanno insegnato solo due cose: bisogna lavorare e bisogna pensare agli altri”. Il padre era un diplomatico antifascista discendente di nobiltà di toga, mentre la madre proveniva da una famiglia aristocratici cattolici conservatori. Nato nel 1925, d’Ormesson aveva passato i primi anni di vita nelle città dove il padre rivestiva incarichi diplomatici: dapprima a Monaco di Baviera, poi a Bucarest, infine in Brasile. Rientrato in Francia con i genitori nel 1938, non andò a vivere nel castello paterno, a Ormesson (“Diderot lo paragonava, a causa dei suoi fossati, a una bottiglia capovolta in un cestello per il ghiaccio”), ormai in totale disarmo, ma in uno dei castelli più belli di Francia, quello della nonna materna, a Saint Fargeau (castello la cui inevitabile vendita, negli anni Sessanta, produrrà nello scrittore un rimpianto assai produttivo: lo rese protagonista del romanzo best seller A Dio piacendo).
Per descrivere i costumi della famiglia materna, scrive nel suo memoir: “A Saint-Fargeau, la cosa che contava di più erano i posti a tavola e i giovani facevano il baciamano alle mie zie. Un bel giorno venne a pranzo da noi il duca di Windsor. Si pose subito un problema: chi mettere alla destra, il duca o il parroco del paese? Vinse la tradizione. Dio va servito per primo. Mia madre mise alla sua destra il caro parroco Voury e alla sua sinistra l’ex re d’Inghilterra”.
D’Ormesson coltivava in massimo grado l’autoironia e, ammettendo di avere avuto una fortunata carriera di seduttore, fingeva di stupirsene per via della sua statura non proprio svettante: “Se in un assembramento fitto di folla vedete un buco, quello sono io”. E ancora: “Sono uno che ha perso gran parte del suo tempo ad andare a pranzo e a cena fuori”. Si accusava di essere stato incostante e superficiale, ma questo era successo solo perché “ho cercato tutta la vita di rifuggire noia, fasto, solennità. Liberté, frivolité, éternité…”. Riguardo poi alle proprie convinzioni: “Per riprendere una battuta cara a Paul Valery, sono raramente della mia opinione”.
Torniamo ora al 5 dicembre 2017: poche ore dopo la morte di Jean d’O (così era chiamato dai francesi), il destino si portò via anche Johnny Hallyday, necessariamente più popolare di lui, e purtroppo i giornali tolsero immediatamente ogni richiamo alla vita del prestigioso intellettuale e riempirono ogni sezione, non solo lo spettacolo ma anche gli esteri e la cronaca, di notizie sulla vita del cantante e attore, sulle liti testamentarie, sui conflitti tra moglie ed ex mogli, su figli biologici, adottivi, putativi.
Macron presenziò a entrambi i funerali. L’8 dicembre, nella Cour d’honneur des Invalides, si svolsero quelli di Jean D’O, con quattro presidenti, qualche ministro, una corte di accademici di Francia intirizziti nei loro mantelli neri, e un manipolo di lettori. “Non ho paura di morire”, aveva dichiarato un paio d’anni prima d’Ormesson. “Mi dispiacerebbe solo che a pronunciare la mia orazione funebre fosse François Hollande”. Hollande partecipò al suo funerale, senza pronunziare alcun discorso commemorativo. Jean d’O lo detestava ancor più di quanto avesse detestato Mitterrand. L’orazione funebre toccò invece al Presidente Macron, che si rivolse allo scrittore dandogli del tu: “Caro Jean, questa tua grazia luminosa e contagiosa ha conquistato i lettori, che vedevano in te un antidoto al grigiore e alla monotonia dei giorni”. D’Ormesson aveva voluto sulla bara una matita come quelle con cui aveva scritto tutte le sue opere, e dunque Macron andò a deporla solennemente sulla bara avvolta nel tricolore.
Il giorno seguente toccò ai funerali di Hallyday. Al corteo funebre, lungo gli Champs Elysées parteciparono un milione di persone venute da tutta la Francia e a Macron toccò una nuova orazione funebre.
A proposito delle proprie antipatie presidenziali, sempre nella sua autobiografia, Jean d’O racconta come, durante un incontro all’Eliseo sollecitato proprio da Mitterrand all’ultimo giorno di mandato prima dell’insediamento di Chirac, il Presidente si fosse dedicato a una serie di maldicenze sulla classe politica del proprio schieramento, rivelandosi come “colui che dopo aver messo in piedi il Programma comune della sinistra, ha più contribuito al declino del comunismo in Francia”. Tra l’altro, per non farsi mancare nulla, nel 2012 quando era ormai ottantasettenne, incuriosito dalla vita degli attori che aveva osservato durante le riprese dello sceneggiato TV tratto dal suo romanzo A Dio piacendo, d’O aveva accettato di interpretare il ruolo di Mitterrand nel film La cuoca del Presidente.
A Dio piacendo è la storia di una famiglia largamente ispirata a quella dello scrittore, ambientata tra il 1904 e il 1968 e scritta in un francese elegante, terso, privo di svolazzi. “Sono nato in un mondo che guardava indietro, dove il passato contava più del futuro”: questo l’attacco del romanzo pubblicato nel 1974, grazie al quale sentii parlare per la prima volta di Jean D’Ormesson. Me lo misero in mano i miei nonni, e così precipitai in una saga familiare della più antica aristocrazia togata francese, nella storia del meraviglioso chateau de Plessiz-lez-Vaudreuil, del lento dissolversi del prestigio sociale e del concetto di rango. È la saga di una famiglia dell’alta aristocrazia francese, attraverso due guerre mondiali fino alla stagione del terrorismo, un misto di chiacchiere elevate all’ombra di alberi secolari, fino all’irruzione della violenza, della modernità borghese, delle ideologie. Lo sceneggiato in sei puntate tratto dal libro raggiunse straordinari picchi d’ascolto, accrescendo ulteriormente la popolarità di Jean d’O. Scrive nelle sue memorie: “Lo shock sentimentale della vendita del castello è stata la fonte del libro. Scriviamo sempre per sfortuna. Scriviamo perché qualcosa non va. Scriviamo perché abbiamo un piede torto come Byron. Scriviamo perché abbiamo l’epilessia come Flaubert. Scriviamo perché siamo terribilmente malati come Proust. Scriviamo per recuperare. La sofferenza della vendita del castello mi perseguita ancora. Gli altri miei libri sono stati scritti sui dolori, di solito sentimentali. Questi dolori svaniscono un po’, resta il dolore del castello”. Nel 1967, dopo una serie di infruttuose trattative con lo Stato, Jean d’O era stato costretto a vendere il maniero, perché non riusciva a mantenerlo. La famiglia della madre l’aveva abitato ininterrottamente dal Settecento. “Per me la fine di Saint-Fargeau è stata una pena soprattutto a causa di mia madre, le cui madre, nonna e bisnonna, fino all’ottava generazione erano nate e morte nel castello con i mattoni rosa. La mia pena personale era mista a sollievo. La storia mi aveva tolto un peso, per me era troppo gravoso”. Dotato di una memoria fenomenale, Jean d’O era un campione della citazione ben assestata e mai banale. Eccone una: “Piangevamo tutti. ‘Rompere le cose reali’ scrive Chateaubriand ‘non è niente. Ma rompere con i ricordi!… A separarsi dai sogni il cuore si spezza’”.
Il romanzo, che sarà un best seller internazionale perché, scrive d’O, ognuno di noi rimpiange una casa perduta, gli diede modo di sublimare il dolore provato. “Sostituivo il castello di pietre che non avevo saputo conservare con un castello di parole”. Aggiungiamo infine che d’O aveva trovato il titolo in una delle sue frequentissime gite romane (amava immensamente l’Italia, Roma e Venezia in particolare). Sull’architrave di un oratorio a pochi passi della chiesa di San Giovanni a Porta Latina notò la scritta, in francese: “Au plaisir de Dieu”.
D’O ebbe come amici e maestri uno scrittore di destra, Paul Morand, e uno di sinistra, Louis Aragon. La sua scrittura rifiutava gli sperimentalismi avanguardistici, così di moda nella letteratura francese: “Come Voltaire, credo che tutti i generi letterari siano buoni, escluso il genere noioso, che ha raggiunto il culmine nella seconda metà del secolo scorso”. Prima di A dio piacendo, d’Ormesson aveva comunque già toccato il cuore dei lettori francesi con il romanzo La gloria dell’impero, pubblicato nel 1971 da Gallimard, e grazie al quale era entrato nel celebre comitato di lettura della casa editrice, delle cui sedute racconta spiritosi aneddoti. E grazie al successo di quel libro, e all’amicizia e ai consigli di Paul Morand, nel 1973 il quarantottenne d’O divenne il più giovane membro di sempre dell’Académie Française, “questa confraternita di beccamorti o di penitenti in divisa verde perennemente a caccia di funerali nazionali o solenni” (e infatti presenzieranno al suo funerale, capitanati dal segretario generale Hélène Carrère d’Encausse). Della sua carriera di accademico, resterà nella storia la battaglia per eleggere finalmente tra gli “immortali” una donna, cioè Marguerite Yourcenar, in “una compagnia ostile al cambiamento. Fu una battaglia durissima. Sono partiti insulti da tutte le parti. Mi trattavano come un mascalzone”. Dopo una lunga contesa su regolamenti e pregiudizi, nel 1980 d’O riesce infine nel suo intento: “Un giornalista mi domandò: ‘Allora cosa è cambiato all’Académie Française?’ Risposi: ‘Ormai ci saranno due gabinetti. Su uno sarà scritto: Signori; e sull’altro: Marguerite Yourcenar’”.
Ad accrescere l’importanza della sua figura nella storia delle lettere francesi, c’è che per giunta d’Ormesson, fu il secondo scrittore vivente a entrare nella prestigiosa collana La Bibliothèque de la Pléiade, onore riservato sino a quel momento solo allo scrittore ceco Milan Kundera. Fu presidente del Consiglio internazionale della filosofia e delle scienze umane dell’Unesco e ambasciatore francese all’Onu, e nella sua lunga vita ci sono persino tre anni da direttore di Le Figaro (dal ’74 al ’77). “Ero continuamente assillato da una massa di problemi sindacali, economici, sociali. Françoise (la moglie, n.d.r.) sosteneva che era lei ad annunciarmi per telefono i grossi avvenimenti politici mentre io discutevo con le associazioni dei giornalisti”. Annoiato, si dimise e scrisse A Dio piacendo.
Seguendo le sue disposizioni, le ceneri di Jean d’Ormesson vennero sparse a Venezia, nel mare della laguna, davanti a Punta della Dogana.
“Un Hosanna Sans Fin” è il libro testamento di Jean d’O. Il titolo è una citazione tratta dal suo amato Chateaubriand. Completato due giorni prima della morte, è stato poi pubblicato dalla piccola e raffinata casa editrice della figlia, Héloïse d’Ormesson. In 140 pagine toccanti, ironiche, profonde lo scrittore si interroga sul mistero dell’esistenza. “Grazie a Dio sto per morire”: inizia così il testo. Chissà se, così pignolo nelle revisioni dei suoi precedenti 37 libri precedenti, d’Ormesson avrebbe salvato questo incipit dopo l’ennesima rilettura. Alla revisione ha pensato invece la figlia. “Dio è abbastanza improbabile. Dio ha tutte le apparenze di una consolante illusione”, afferma Jean d’O. E prosegue: “Non pretendo che Dio esista: non lo so. Sostengo che nulla si oppone alla sua esistenza, e che ha il diritto di esistere”. In pratica, “La fede è come un angolo di cielo azzurro alla fine di una giornata piuttosto buia”. E ancora: “Dio non ha altra esistenza che quella che noi ci sforziamo di prestargli. Nessuno lo ha mai visto. Tutti possono farne a meno. Dio è abbastanza improbabile. Dio ha tutte le apparenze di una consolante illusione”. Però, questa aleatorietà divina, ci lascia il dubbio di come possiamo spiegare “tutti i prodigi che abbiamo visto accadere davanti ai nostri occhi spalancati: la goccia d’acqua, il granello di sabbia (…), le modalità dello scorrere del tempo che non riusciamo a spiegarci, gli avvicendamenti della storia: la vita è una necessità popolata dal caso”. Di fronte a tutto questo, Dio è “non molto più improbabile dello strano mondo in cui viviamo ogni giorno e che ci sembra così ovvio”.